La Cappella Sistina

Entrare nella Cappella Sistina è un'esperienza unica e totalizzante, capace di pervadere la nostra anima di infinita bellezza, in un luogo dove l'arte è divenuta vera e propria dichiarazione d'amore a Dio.
In questo percorso si cercherà di rendere almeno in piccola parte questa emozione, analizzando brevemente 2.500 metri quadrati di grande pittura dove i migliori artisti rinascimentali ebbero la loro sfida più importante.

La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e 'l petto fo d'arpia,
e 'l pennel sopra 'l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.

La Sistina, antologia figurata della storia dell'arte, è nell'immagine collettiva l'impresa di Michelangelo Buonarroti, la cui potenza pittorica rapisce la nostra attenzione non appena siamo in procinto di entrare, già con la testa rivolta all'insù. In questi meravigliosi versi l'artista descrive il suo lavoro durante la decorazione della volta, ed è proprio così che lo immaginiamo sospeso sui ponteggi, sdraiato sulla schiena con la barba impastata dei colori sgocciolanti dalla parete: i blu lapislazzuli, le terre di Siena, i verderame.

Tuttavia la Sistina non è solo Michelangelo, ma il susseguirsi di vari personaggi che hanno reso la cappella il capolavoro che oggi conosciamo. Una storia che ha inizio nell'ultimo ventennio del Quattrocento con gli affreschi delle pareti laterali.

I papi

Per l'intera cristianità la Sistina è uno dei luoghi fondamentali e simbolici, nella quale i cardinali riuniti a conclave eleggono per volere di Dio il pontefice, il successore di Pietro. Proprio da un papa, Sisto IV della Rovere, la cappella prende il suo nome. Nell'affresco di Melozzo da Forlì, custodito nella Pinacoteca Vaticana, vediamo Sisto IV seduto dinanzi al nipote Giuliano, che diverrà papa col nome di Giulio II.
Nel 1473 Sisto IV affidò il progetto architettonico della cappella all'architetto Baccio Pontelli e nel 1481 chiamò a lavorarvi i più grandi pittori attivi in quell'epoca a Firenze, vale a dire Pietro Perugino, Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli e Cosimo Rosselli.
Questo evento fu segnato dal tentativo di riconciliazione tra il signore di Firenze, Lorenzo il Magnifico, e la corte pontificia, che nel 1478 aveva appoggiato la Congiura dei Pazzi.
I lavori durarono appena due anni e il giorno dell'Assunta dell'anno 1483, solennità a cui è dedicata la cappella, Sisto IV poté inaugurare le due pareti laterali.

Il committente della volta michelangiolesca fu invece Giulio II, figura determinante per la Roma che oggi possiamo contemplare in quanto si avvalse dell'arte come strumento che mostrasse tutto il prestigio della Chiesa. Noto è il rapporto tumultuoso che instaurò col Buonarroti, a cominciare dalla celebre vicenda della tomba, che sarebbe dovuta sorgere al centro della nuova basilica di San Pietro, conclusasi in quella che Michelangelo stesso definì "la tragedia della sepoltura".
Fu Donato Bramante, primo architetto della fabbrica di San Pietro, a consigliare al papa di abbandonare il lavoro in quanto di cattivo augurio farsi costruire il sepolcro quando ancora in vita. Così Michelangelo venne incaricato di affrescare l'immensa volta, mentre il giovane Raffaello Sanzio da Urbino avrebbe lavorato negli appartamenti papali alla Scuola di Atene.

Ritratto di Giulio II - Raffaello Sanzio - 1512 - Firenze, Galleria degli Uffizi

Anche il successore di Giulio II, Leone X, figlio di Lorenzo de' Medici, volle legare il suo nome alla Sistina, fino ad allora sinonimo dei Della Rovere. Decise così di donare una serie di preziosi arazzi i cui disegni furono chiesti a Raffaello. Questi sarebbero stati usati solo durante le cerimonie più solenni, posti nel registro più basso delle pareti, dove oggi vi sono dei finti tendaggi.

Ritratto di Leone X - Raffaello Sanzio - Firenze, Galleria degli Uffizi - 1518

Michelangelo fu chiamato nuovamente in Sistina quasi venticinque anni dopo l'impresa della volta, quando papa Clemente VII, figlio di Giuliano de' Medici, gli commissionò il Giudizio finale. Il pontefice, che avrebbe seguito personalmente i lavori, morì quando l'artista stava iniziando a mettere mano ai cartoni preparatori. Venne fatto papa Paolo III Farnese, il quale conferì al Buonarroti la carica di supremo architetto, scultore e pittore del Palazzo Apostolico.
Il 31 ottobre, vigilia di Ognissanti, dell'anno 1541, il pontefice inaugurò la cappella affrescata nella sua totalità.

Clemente VII ritratto da Bronzino (a sinistra) e Paolo III ritratto da Tiziano (a destra).

Le pareti laterali

Rapiti dalla potenza dell'arte michelangiolesca, quando si entra in Sistina quasi non ci si accorge dei preziosi tesori che custodiscono le pareti laterali, opera dei professionisti umbri e toscani del Quattrocento, tra i vertici dell'arte rinascimentale. Basti pensare che i tre affreschi del Botticelli sono grandi tre volte la Nascita di Venere custodita alla Galleria degli Uffizi di Firenze.
Entrando dalla porta principale, dalla parte opposta rispetto all'ingresso del percorso dei Musei Vaticani, si vedono sulla parete di destra le Storie di Gesù e sulla parete di sinistra le Storie di Mosè, scene tratte dunque dall'Antico e dal Nuovo Testamento, a dimostrazione della concordanza tra la vita di Mosè e quella di Cristo, i due grandi legislatori.

Il primo affresco di destra, situato vicino all'altare e dunque al Giudizio universale di Michelangelo, è il Battesimo di Cristo di Pietro Perugino.

Il fiume Giordano scorre al centro della composizione verso lo spettatore, bagnando i piedi di Gesù e Giovanni Battista, in primo piano. Dio è in alto, circondato da una sfera di luce e da una schiera di angeli. Sul capo di Gesù scende la colomba dello Spirito Santo. Scrive l'Evangelista Marco:

In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Il paesaggio sullo sfondo, in cui l'occhio rischia di perdersi per l'incredibile profondità, è una rappresentazione della città di Roma; si scorgono infatti un arco di trionfo, il Colosseo e il Pantheon. Alla sinistra del dipinto si vede la predica alle folle del Battista, mentre a destra quella di Gesù.
Assistono in primo piano alla scena principale alcune figure in abiti contemporanei, probabilmente realmente esistiti. L'opera è firmata all'estrema sinistra in basso.

Si può dire che l'artista, nella cui bottega si formò niente meno che Raffaello e che qui in Sistina ebbe come collaboratore il giovane Pinturicchio, fu il secondo grande protagonista della cappella dopo il Buonarroti, realizzando in totale cinque immense opere, due delle quali, poste sulla parete del Giudizio, furono distrutte quando il fiorentino iniziò i lavori. Per l'altare Perugino aveva dipinto anche una pala andata perduta raffigurante l'Assunta con Sisto IV inginocchiato, tema a cui è dedicata la cappella. Oggi resta solamente un disegno eseguito dal Pinturicchio conservato a Vienna.

Alla destra del Battesimo di Cristo vi sono le Tentazioni di Cristo dipinte da Sandro Botticelli. Le tre tentazioni a cui fu sottoposto Cristo per opera di Satana, descritte dall'evangelista Matteo, si vedono nella zona superiore dell'affresco. Il demonio, che indossa i panni di un eremita, tenta il Signore, a digiuno nel deserto da quaranta giorni e quaranta notti, chiedendogli di trasformare le pietre in pane, come si vede a sinistra. Al centro, sulla sommità del tempio, lo invita a gettarsi così che i suoi angeli possano venire a salvarlo. A destra il tentatore mostra infine al Figlio di Dio lo sfarzo delle ricchezze mondane e gli promette il potere del mondo se solo si prostrerà a lui. Gesù, però, non cede per la terza volta a Satana, il quale finisce per cadere da un precipizio mostrando il suo vero volto diabolico.
Gesù si vede nuovamente a sinistra nel piano centrale del dipinto, accompagnato da alcuni angeli, posto come osservatore di quanto avviene in primo piano. Dinanzi al tempio si sta infatti compiendo un sacrificio, con alcuni personaggi che portano le loro offerte, si noti la bellissima donna che tiene sulle spalle un fascio di legna, mentre al centro vi è la scena della Purificazione del lebbroso citata nel Levitico, episodio che si ricollega alla guarigione del lebbroso compiuta da Cristo all'inizio della sua missione.

Il ciclo prosegue con la Vocazione dei primi apostoli di Domenico Ghirlandaio, nella quale vediamo in primo piano Gesù che chiama Simon Pietro e Andrea, scena così descritta dall'evangelista Marco:

Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito, lasciate le reti, lo seguirono.

La scena continua sulla parte di destra del dipinto, dove Pietro e Andrea sono dietro a Gesù, sulla riva, che sta chiamando a sé altri due apostoli, Giacomo e Giovanni, rappresentati sulla barca del padre Zebedeo al centro.

Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono.

Così come il Perugino, Ghirlandaio, che fu il primo maestro di Michelangelo, scelse di ritrarre alcuni contemporanei nella moltitudine di spettatori che assistono alla chiamata. Alla scena, che si svolge in modo circolare, fa da cornice un suggestivo paesaggio con monti, insenature e città fortificate, fino al perdersi delle acque nell'infinito dell'orizzonte. L'artista si firma attraverso l'immagine di un giovane a sinistra coronato da una ghirlanda, evidente allusione al suo nome.

Rivale del Ghirlandaio, in quanto le loro botteghe erano all'epoca le più prestigiose di Firenze, Cosimo Rosselli realizzò il Discorso della montagna, sicuramente uno dei discorsi fondamentali rivolti da Gesù alla folla, sintesi dei valori fondamentali della fede cristiana. Così l'evangelista Matteo:

Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Tra la folla, alla sinistra del dipinto, si scorge in ultima fila un uomo col cappello nero rivolto verso lo spettatore. Questi dovrebbe essere lo stesso Rosselli in un autoritratto. Il magnifico paesaggio che fa da sfondo all'opera dovrebbe essere invece di uno degli allievi più dotati della bottega del pittore, ossia Piero di Cosimo. A destra ha luogo infine la scena della guarigione del lebbroso, episodio descritto dall'evangelista Marco:

Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!». Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci!». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì.

Per un particolare effetto visivo dovuto alla posizione dell'affresco e per l'altissimo significato teologico che custodisce, la Consegna delle chiavi, il capolavoro di Pietro Perugino, è il primo che i cardinali riuniti a conclave incontrano con i loro sguardi, simbolo della Chiesa e dell'importanza del ruolo del papato, tramite tra Dio e il suo popolo.
Dinanzi a un edificio dalla perfezione geometrica e prospettica si compie l'episodio del "tibi dabo claves", quando Gesù disse a Pietro:

Ed io ti darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che avrai legato in terra, sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto in terra sarà sciolto nei cieli.

L'edificio sullo sfondo diviene il fulcro dell'intera composizione, in grado di conferire una celeste armonia all'insieme ponendo in risalto i protagonisti. Questa scelta stilistica ci riporta alla mente altri capolavori della storia dell'arte, come per esempio il meraviglioso Sposalizio della Vergine di Raffaello custodito alla Pinacoteca di Brera di Milano, ma anche il Tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante, situato al Gianicolo, che appare come la trasposizione architettonica del dipinto.
A livello stilistico il Perugino raggiunse con quest'opera le vette del suo genio pittorico, sfiorando la perfezione attraverso l'armoniosità dello spazio, la dolcezza delle forme e dei lineamenti, con volti caratterizzati da quella soave malinconia che divenne la sua principale caratteristica.
Attorno a Cristo e Pietro vi sono gli altri apostoli, tra i quali si riconosce Giuda, il quinto alla sinistra di Gesù, mentre a destra si notano lo stesso Perugino, vestito di nero e rivolto verso l'osservatore, e infine due personaggi contemporanei del pittore con in mano compasso e squadra, identificabili come l'architetto che curò il progetto di edificazione della Sistina, ossia Baccio Pontelli, e Giovannino de' Dolci, il quale ne diresse i lavori di costruzione.

L'ultima opera della parete delle Storie di Cristo, situata vicino alla porta d'ingresso, è l'Ultima Cena realizzata da Cosimo Rosselli, che affrontò il tema del Cenacolo tenendo conto dei due illustri precedenti del Ghirlandaio e di Leonardo da Vinci. Subito colpisce la presenza di uno solo dei dodici apostoli dall'altra parte della tavola, girato di spalle rispetto all'osservatore. È Giuda Iscariota, protagonista dello specifico momento raffigurato, quando Gesù disse:

In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà.

La principale novità è però quella di rappresentare in alto le scene successive a questa rivelazione, che appaiono come dipinti nel dipinto, cioè l'Orazione nell'orto, la Cattura di Cristo e infine la Crocifissione. Proprio al centro, le figure di Gesù e Giuda seduti a tavola, si ritrovano appena sopra nell'istante del bacio:

Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo?

Le Vite di Giorgio Vasari ci raccontano un aneddoto curioso che riguarda il Rosselli. Alla conclusione dei lavori papa Sisto avrebbe infatti assegnato un premio al pittore che, secondo il suo giudizio, aveva dato vita al dipinto migliore. Sentendosi inferiore degli altri presenti nell'invenzione e nel disegno, Rosselli decise di coprire alcune parti delle sue opere con "finissimi azzurri oltramarini e d’altri vivaci colori", scrive il Vasari. Il pontefice, recatosi per giudicare, fu colpito proprio da quei raggianti colori e decise di assegnare il premio al Rosselli, a suo parere il più bravo di tutti.

Sulla parete di sinistra, in perfetta specularità di immagine e contenuto con le Storie di Cristo, si trovano le Storie di Mosè, che cominciano, come sul lato opposto, con un affresco del Perugino e aiuti, vale a dire la Partenza di Mosè per l'Egitto.
Il legislatore, riconoscibile dal vestito giallo e verde, viene fermato al centro della composizione da un angelo che gli chiede di circoncidere il suo secondogenito, Eliezer. Nella scena di destra viene mostrata la cerimonia di cui si occupa la madre Sefora. L'opera sottolinea il parallelismo tra le cerimonie della circoncisione e del battesimo, rispettivamente nel mondo ebraico e cristiano, alludendo anche alla dimensione più profonda e spirituale del rito cristiano raffigurato di fronte.
Nel cielo volano degli uccelli, i quali celano diversi significati religiosi, motivo faunistico già incontrato sulle altre pareti in Ghirlandaio e Rosselli.

Anche il secondo registro vede due affreschi dello stesso artista posti in chiara connessione; se a destra vi sono infatti le Tentazioni di Cristo del Botticelli, a sinistra troviamo le Prove di Mosè, che il fiorentino dipinse riportando fedelmente gli episodi della vita giovanile di Mosè scritti nel Libro dell'Esodo. Da destra si vedono dunque Mosè, sempre vestito di giallo e verde, mentre uccide un egiziano che aveva maltrattato un israelita, fuggendo poi verso il deserto, come si vede sullo sfondo. Più al centro scaccia i pastori che impediscono alle figlie del sacerdote Ietro, tra cui la sua futura moglie Sefora, di abbeverarsi al pozzo, per poi attingere l'acqua per le fanciulle e le loro pecore. A sinistra, sulla sommità del monte, Mosè, guardiano del gregge di Ietro, si toglie i calzari per poi avvicinarsi al roveto ardente dove Dio gli comunica la missione di tornare in Egitto e liberare il suo popolo, con il corteo più in basso in cui il patriarca guida gli Israeliti fuori dall'Egitto.

In continuità con l'opera precedente, il Passaggio del Mar Rosso mostra Mosè, in una scena concitata caratterizzata dal colore rosso sangue delle acque, portare in salvo il suo popolo dalla servitù d'Egitto, mentre l'esercito egiziano rimane travolto dal mare che si sta richiudendo. La storia è dunque di acqua e di salvezza, proprio come la Vocazione dei primi apostoli di Domenico Ghirlandaio che gli è di fronte. A lungo si è discusso sull'attribuzione del dipinto, secondo alcuni studiosi proprio del Ghirlandaio, mentre per altri di Cosimo Rosselli, ma con molta probabilità di uno dei collaboratori di quest'ultimo, ossia Biagio d'Antonio, che ebbe dunque il privilegio di lavorare in quella che sarebbe diventata la cappella più celebre della storia universale delle arti.

A fronteggiare il Discorso della montagna, dunque la nuova e definitiva legge, quella dell'Amore, è la Discesa dal monte Sinai, sempre di Cosimo Rosselli e aiuti, quando Mosè riceve le Tavole della Legge da Dio in cima al monte Sinai.  
In basso a sinistra vediamo Mosè che mostra le Tavole al popolo d'Israele, mentre al centro, in preda all'ira avendo scoperto la creazione dell'altare del vitello d'oro, getta a terra le Tavole spezzandole. A destra vi sono poi alcuni ritratti dietro i quali vi è la ricezione delle nuove Tavole.

Accanto all'opera del Rosselli si trova un altro capolavoro, la Punizione dei ribelli di Sandro Botticelli, che, insieme alla Consegna delle chiavi del Perugino posto di fronte, è sicuramente uno degli affreschi che rapiscono maggiormente l'attenzione del visitatore, probabilmente per il bellissimo arco trionfale che fa da sfondo alla scena, nient'altro che l'Arco di Costantino situato accanto al Colosseo.
Mosè interviene contro gli usurpatori dell'autorità sacerdotale, con chiaro riferimento ai tentativi di quegli anni di mettere in discussione il potere del papato, che invece discende direttamente da Dio, come celebra magnificamente l'affresco del Perugino. Evidente è dunque l'allegoria del potere papale e della punizione che spetta a chi oserà sostituirsi ai capi eletti da Dio.
Secondo un programma iconografico studiato minuziosamente, Sisto IV legittimò così la sua autorità papale, che a lui veniva da Mosè attraverso Cristo sino a Pietro.

Conclude il ciclo della parete di sinistra un'opera di Luca Signorelli e Bartolomeo della Gatta intitolata Testamento e morte di Mosè, elogiata dal Vasari come una delle migliori della cappella. Il Signorelli fu chiamato a Roma un anno dopo l'inizio dei lavori, probabilmente in sostituzione del Perugino, impegnato in altre commissioni.
Lo stile pittorico della composizione lascia pensare che il dipinto sia in gran parte di Bartolomeo della Gatta, anima sensibile e religiosa che dipinse con certezza i due bambini in primo piano e l'affettuosa donna che stringe tra le braccia il figlio, immagine della maternità tra le più dolci della storia dell'arte, prodigio di tenerezza che sembra anticipare le splendide Madonne raffaellesche. Del Signorelli sono invece l'elegante donna col bimbo sulle spalle, il giovane di spalle al centro, l'ignudo seduto alla sua sinistra, infine l'uomo anziano appoggiato al suo bastone vicino al trono del patriarca, che anche in qui è riconoscibile dal vestito giallo e verde.

Luca Signorelli e Domenico Ghirlandaio furono impegnati anche nei due affreschi della parete d'ingresso con gli episodi conclusivi delle Storie di Mosè e di Gesù: la Disputa sul corpo di Mosè e la Resurrezione di Cristo. I loro lavori furono però distrutti nel 1522 a causa del crollo dell'architrave della porta principale. Nella seconda metà del Cinquecento, durante il pontificato di Gregorio XIII, l'opera del Signorelli venne sostituita con una riproduzione realizzata da Matteo da Lecce, mentre quella del Ghirlandaio dal fiammingo Hendrik van den Broeck, certamente gli interventi pittorici più deboli della cappella.

La volta

Quando papa Giulio II della Rovere commissionò a Michelangelo Buonarroti l'immensa decorazione a fresco della volta, la Sistina doveva apparire come in questa ricostruzione del XIX secolo, con il soffitto interamente ricoperto da un cielo azzurro cosparso di stelle, opera di Piermatteo d'Amelia.

Nel 1504 i problemi statici della cappella resero necessario il consolidamento della volta, che era però compromessa, tanto che il pontefice, molto legato a questo luogo, scelse il Buonarroti per ridipingerla totalmente. Dovendo abbandonare i progetti e le statue che già aveva cominciato per il mausoleo del pontefice, da collocare nella nuova San Pietro, Michelangelo decise di fuggire da Roma per fare ritorno a Firenze, scrivendo all'amico architetto Giuliano da Sangallo: "s'i' stava a Roma penso che fussi fatta prima la sepoltura mia, che quella del papa".

Giulio II, che come il suo artista era estremante orgoglioso e determinato, oltre che irascibile, non si diede però per vinto e, minacciando lo scultore di compromettere il rapporto tra le due città riconciliatesi solo da pochi anni, alla fine riuscì a riportarlo in Vaticano.
Michelangelo conosceva bene la tremenda fatica a cui andava incontro, per di più costretto ad abbandonare il marmo, la sua vera passione, per cimentarsi nell'affresco, tecnica che non praticava da anni, quando appena tredicenne si recò a bottega da Domenico Ghirlandaio. Riconoscendo come maestri i suoi predecessori quattrocenteschi, l'artista, nel 1508, cominciò l'impresa, spinto dall'ambizione personale e dal desiderio di superare il rivale Raffaello Sanzio nella sua stessa arte, nella quale era considerato inimitabile, "divino".
Giulio II aveva affidato al giovane urbinate i propri appartamenti privati; bisogna immaginarsi dunque Raffaello impegnato nella meravigliosa Stanza della Segnatura, nel capolavoro di Scuola di Atene, e contemporaneamente Michelangelo rinchiuso nella solitudine degli immensi muri della cappella magna.
Il loro modo di operare era del tutto opposto; il Sanzio era circondato da una vera e propria corte di uomini raffinati, colti intellettuali e talentuosi allievi, tanto da sembrare un principe più che un pittore, e così anche il suo stile, capace di conciliare le esatte proporzioni di Piero della Francesca e l'armoniosa bellezza delle forme di Pietro Perugino, non aveva niente a che vedere con quello del Buonarroti, le cui anatomie rispecchiano tutta quella tensione, insita dell'uomo, di raggiungere Dio.
Così, prima di cominciare i lavori, anche Michelangelo aveva fatto arrivare da Firenze alcuni aiutanti, fra cui l'amico Francesco Granacci, Giuliano Bugiardini e Bastiano da Sangallo. Non ci volle molto, però, perché l'artista, in preda all'ira, decidesse di mandare via tutti, rinchiudendosi nella completa solitudine, probabilmente in quanto i collaboratori non conoscevano le mescole dei colori adatte al clima romano. Da solo, fra le angosce di non farcela e le sofferenze fisiche, per quattro lunghi anni nel caldo torrido di Roma e negli inverni gelidi, cominciò a mettere mano alla volta.

Scrive Goethe: "Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un'idea apprezzabile di cosa un uomo solo sia in grado di ottenere".

Numerosi ostacoli si erano in realtà già riscontrati ancor prima di preparare i colori e iniziare a dipingere, come per esempio il modo di raggiungere il soffitto, alto più di venti metri. Fu Donato Bramante ad ideare i ponteggi, ma il Buonarroti giudicò la struttura del tutto inadeguata, in quanto avrebbe lasciato dei buchi nel soffitto. Si occupò allora personalmente anche della preparazione dei ponteggi, relativamente semplici, sicuramente funzionali e meno invasivi, sebbene non gli permisero di evitare il problema legato alla posizione innaturale per lavorare.

Raffaello in Sistina - Jean-Léon Gérôme

Quando una sera Raffaello, grazie all'aiuto del Bramante, poté entrare nella Sistina, dove Michelangelo continuava a lavorare senza sosta in gran segreto, l'urbinate, che fu il primo oltre al papa a poter ammirare la nascita di quel capolavoro, rimase senza fiato dinanzi alla Creazione di Adamo. Decise allora di omaggiare il rivale nella sua opera più bella, la Scuola di Atene, aggiungendo il suo ritratto a mano libera in primo piano, nelle vesti del tenebroso filosofo Eraclito, solitario e pensieroso come il profeta Geremia della volta michelangiolesca. Ecco perché Eraclito ha le fattezze anatomiche delle figure del Buonarroti. Ciò dimostra il rispetto e la reciproca stima che i due artisti nutrivano l'uno per l'altro, ben più grande della rivalità, in una competizione che permise ad entrambi di toccare le vette della creazione artistica.

Michelangelo come Eraclito nella Scuola di Atene (a sinistra) e il Profeta Geremia della volta (a destra).

Così Giorgio Vasari: "Vedesi quel Ieremia, con le gambe incrocicchiate, tenersi una mano alla barba posando il gomito sopra il ginocchio, l'altra posar nel grembo et aver la testa chinata, d'una maniera che ben dimostra la malenconia, i pensieri, la cogitazione e l'amaritudine che egli ha de 'l suo popolo".

Il corpo a corpo di Michelangelo con la volta della Sistina è sicuramente tra le vicende più avvincenti e romanzate della nostra storia dell'arte, tuttavia è importante soffermarsi sulla fatica immane a cui il pittore fu sottoposto, non senza timori e ripensamenti, con lo sconforto e la tremenda angoscia di poter fallire.

Io sono ’n una fantasia grande, perché el lavoro mio non va inanzi i’ modo che a me ne paia meritare. E questa è la dificultà del lavoro, e ancora el non esser mia professione. E pur perdo il tempo mio senza fructo. Idio m'aiuti.

Michelangelo divenne l'emblema della solitudine dell'artista, trovando nelle profondità di sé stesso, guidato da un soffio divino, la determinazione e il coraggio di proseguire, di non arrendersi, condizionando per sempre la sua salute fisica, come scrive egli stesso in un sonetto di cui ancora oggi si conserva l'originale. Michelangelo afferma che gli è ormai cresciuto un gozzo, costretto a rimanere per anni in una posizione innaturale, deformato dallo stare a testa in su giorno e notte sul ponteggio, compromettendo la vista, come si evince anche dal piccolo schizzo che realizza a destra del componimento, nel quale si ritrae al lavoro. Nel finale cresce lo sconforto, dichiarando nuovamente di non essere pittore, ma anche di non essere "in loco bon", riferendosi al contesto romano a lui ostile e alla corte papale.

I’ ho già fatto un gozzo in questo stento,
coma fa l’acqua a’ gatti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
c’a forza ’l ventre appicca sotto ’l mento.
  La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.

  E’ lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e ’ passi senza gli occhi muovo invano.
  Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.
      Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.
      La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore.

Alcuni studiosi hanno inoltre constatato, analizzando questo ritratto del Buonarroti realizzato da Iacopino del Conte, che l'artista soffriva di una grave forma di artrosi che gli rese assai difficile ogni attività manuale. Lo si può capire dalla mano deformata posta in primo piano, mano capace di donare la vita al marmo nella Pietà vaticana e nel David simbolo eterno della città di Firenze. La forza di volontà di Michelangelo e il desiderio di portare a termini i suoi capolavori gli permisero però di vincere la malattia, donando ulteriore valore alle sue imprese.

Oltre all'esecuzione materiale della volta e all'estenuante fatica fisica ad essa connessa, bisogna tenere conto che al Buonarroti si deve anche il programma dottrinale dell'opera, che andava a completare le Storie di Gesù e di Mosè.
Nei nove riquadri della parte centrale dipinse così le Storie della Genesi, che in ordine cronologico cominciano dalla parete dell'altare per arrivare a quella d'ingresso. Michelangelo iniziò a dipingerle però in senso opposto, dunque dalla porta principale per arrivare a dove oggi è il Giudizio finale.
Attorno a queste scene una moltitudine di nudi fanno da cornice, mentre i titanici Profeti, sui loro troni, e le pagane Sibille, che sembrano uscire dalla finta architettura creata dall'artista, annunciano la venuta di Cristo. Ciò che hanno raccontato, ispirati dal Signore, sta prendendo vita nelle scene dipinte intorno a loro.

Il Profeta Isaia e la Sibilla Libica.

Il linguaggio pittorico michelangiolesco registra sensibili mutamenti nel corso della realizzazione dell'intero ciclo. Così, dall'immagine statica e solenne del profeta Zaccaria si giunge, dalla parte opposta, al gesto drammatico di Giona, come sconvolto dall'avverarsi degli episodi centrali.

Cronologicamente il ciclo comincia dal Fiat lux, quando Dio separa la luce dalle tenebre, in un volo che squarcia il cielo. È però da tenere in considerazione che in ordine di realizzazione questo fu l'ultimo eseguito dall'artista, che man mano ci mise sempre meno tempo, avendo ormai superato le difficoltà iniziali e acquisito un preciso e ben consolidato metodo di lavoro.

Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.

Ognuno dei giovani ignudi situati negli angoli delle scene richiese comunque almeno tre giorni di lavoro. Prima di usare il pennello direttamente sulla parete era infatti necessaria una minuziosa preparazione del cartone a grandezza naturale, che serviva da guida, e prima ancora il disegno, dove prendeva vita l'idea che il pittore aveva impressa nella sua mente.
Molti nudi hanno con sé dei festoni di fronde di quercia, simbolo della famiglia Della Rovere e glorificazione del pontificato di Giulio II.

Nella Creazione degli astri e delle piante Dio è raffigurato due volte, a destra con i potenti gesti delle braccia che disegnano i pianeti e le stelle, mentre a sinistra, di spalle, tende la mano destra per creare le verdi piante della Terra.
Così il Vasari: "Nella seconda fece con bellissima discrezione et ingegno quando Dio fa il sole e la luna, dove è sostenuto da molti putti e mostrasi molto terribile per lo scorto delle braccia e delle gambe. Il medesimo fece nella medesima storia quando, benedetto la terra e fatto gli animali, volando si vede in quella volta una figura che scorta, e dove tu cammini per la cappella, continuo gira, e si voltan per ogni verso".

Dispone poi la materia, nella Separazione della terra dalle acque, sospeso nel vuoto come un supremo architetto.

Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto». E così avvenne. Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona.

È però la Creazione di Adamo, al centro della volta, l'affresco più noto che cerchiamo non appena entrati in Sistina, sintesi e traguardo finale, insuperabile, della nostra storia dell'arte.
Scrisse il Vasari su Michelangelo: "Dove egli ha posto la sua divina mano, ha resuscitato ogni cosa donandole eternissima vita".

Dio, raffigurato in tutto il suo splendore, viene portato verso Adamo da un gruppo di angeli, i quali, afferma Vasari, "par che sostenghino non solo una figura, ma tutto il peso del mondo". Con il braccio sinistro il Creatore abbraccia i putti come a sostenersi, mentre con l'altro, aggiunge il critico aretino, "porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e di dintorni di qualità che e’ par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore più tosto che dal pennello e disegno d’uno uomo tale".
In uno slancio vitale pieno di eleganza, Dio dona la scintilla della vita all'uomo, ad Adamo, bellissimo, creato a Sua immagine e somiglianza. Nelle due mani che si cercano, si sfiorano, senza potersi mai toccare, è riposta tutta la tensione dell'uomo ad arrivare a Dio e allo stesso tempo l'incolmabile distanza che separa il divino e l'umano.

Appena sopra la Creazione di Adamo, in un affresco più piccolo, vi è la Creazione di Eva; la donna scaturisce da una costola dell'uomo e si presenta dinanzi alla maestosa figura di Dio, che la invita ad alzarsi.

Il riquadro seguente è diviso in due scene dall'albero di fico su cui si attorciglia il serpente tentatore, che porge ad Eva il frutto proibito. È il Peccato originale, a cui segue la Cacciata dal Paradiso terrestre. L'espressività di quest'ultima trova il suo precedente nel Masaccio della cappella Brancacci. L'arcangelo Michele, con la sua spada giudicante, allontana per sempre Adamo ed Eva, grottesche figure trasfigurate dal peccato.

L'episodio del Sacrificio di Noè avrebbe dovuto seguire, e non precedere, la scena del Diluvio universale, tuttavia la scelta è probabilmente da attribuire alla volontà dell'autore di riservare al Diluvio uno dei riquadri maggiori. Noè compie su un altare il sacrificio a Dio dopo essersi salvato con l'arca; si vedono così in primo piano un giovane che ha appena ucciso un ariete, mentre a destra un altro ragazzo regge in mano un fascio di legna da ardere. A sinistra si vedono altri animali: un toro, due cavalli e, sullo sfondo, anche un elefante.

Il Diluvio universale fu probabilmente il primo riquadro a cui si dedicò Michelangelo, lavorandovi per quasi un mese. Una moltitudine di nudi cerca di mettersi in salvo dalle acque e dalla collera di Dio, mentre in lontananza si vede la grandiosa arca di Noè, intoccata dalla tempesta.
Spaventati, ma allo stesso tempo rassegnati a ciò che verrà, i personaggi cercano di portare in salvo i propri beni e le persone amate: le madri i loro bambini, gli uomini le proprie mogli, infine, al centro, un anziano padre sorregge con fatica tra le braccia il figlio esanime.

Conclude il ciclo l'Ebbrezza di Noè, sopra la porta d'ingresso, che va letta da sinistra, dove si vede Noè con una tunica rossa mentre dissoda la terra per piantare la vigna. Avendo poi bevuto il vino si ubriacò addormentandosi nudo all'interno della sua capanna, dove si vede dietro il suo corpo un grande tino per la fermentazione dell'uva. La scena raffigura l'oltraggio a Noè da parte del figlio minore, Cam, che avvisa i suoi fratelli Sem e Iafet, i quali accorrono con un mantello per coprirlo. Per il gesto di derisione compiuto da Cam, che ha il dito puntato ad indicare il padre ubriaco, Noè, al suo risveglio, ne maledirà la stirpe.

Finalmente, nell'ottobre del 1512, Michelangelo può scrivere con orgoglio a suo padre: "Io ò finita la cappela che io dipignevo: el papa resta assai ben sodisfato" .

La vigilia di Ognissanti dell'anno 1512 Giulio II, ormai stanco e malato, poté inaugurare, alla presenza dell'intera corte pontificia e di ogni artista che si trovava a Roma, Raffaello e Bramante su tutti, la sua amata cappella, fatta costruire dallo zio e da lui portata avanti, non senza iniziali difficoltà, per mezzo del Buonarroti. Sembrò quasi che il destino volle riservargli quell'emozionante momento prima di morire. Si spense infatti pochi mesi dopo nel febbraio 1513.
Così il Vasari: "Questa opera è stata et è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo, per tante centinaia d’anni in tenebre stato".

Da quel giorno, l'intera storia della pittura non fu più la stessa; pellegrini da ogni parte del mondo si recarono a Roma solo per osservare la volta michelangiolesca e ancora oggi, a distanza di più di cinquecento anni, Michelangelo continua ad attrarre milioni di visitatori, che, con gli occhi rivolti in alto, sentono nel proprio cuore di appartenere a quell'infinito mistero che è l'eterno.
Michelangelo davvero sfiorò il divino; lo spiega bene il Vasari, che dichiara fortunati i contemporanei dell'artista, ma che invita anche ognuno di noi a cercare di imitare Michelangelo in tutte le cose, senza mai rinunciare a vincere la sfida con noi stessi e le nostre infinite possibilità.

"O veramente felice età nostra, o beati artefici, che ben così vi dovete chiamare, da che nel tempo vostro avete potuto al fonte di tanta chiarezza rischiarare le tenebrose luci degli occhi e vedere fattovi piano tutto quel che era dificile da sì maraviglioso e singulare artefice! Certamente la gloria delle sue fatiche vi fa conoscere et onorare, da che ha tolto da voi quella benda che avevate innanzi agli occhi della mente, sì di tenebre piena, e v’ha scoperto il vero dal falso, il quale v’adombrava l’intelletto. Ringraziate di ciò dunque il Cielo e sforzatevi di imitare Michelagnolo in tutte le cose. Sentissi nel discoprirla correre tutto il mondo d’ogni parte, e questo bastò per fare rimanere le persone trasecolate e mutole".

Gli arazzi

La centralità dell'arte nella Roma papale di inizio Cinquecento proseguì anche con il pontificato di Leone X Medici, profondo conoscitore del bello in quanto figlio di Lorenzo il Magnifico, che volle legare il nome della casata medicea alla Sistina attraverso il contributo del suo artista prediletto, Raffaello Sanzio, il quale aveva stupito il mondo con gli affreschi delle Stanze e che grazie al pontefice fiorentino ottenne anche il ruolo di primo architetto della fabbrica di San Pietro.
Come per Michelangelo sfidare Raffaello nella sua stessa arte, vale a dire la pittura, rappresentò un'occasione irrinunciabile, così per l'urbinate lavorare nel luogo dove il rivale aveva ottenuto uno dei successi più evidenti, che in pochi avrebbe creduto possibile, fu un modo per riprendersi nuovamente il palcoscenico pittorico romano che già lo acclamava come lo stupore del secolo.

L'idea di offuscare anche solo per poco tempo la volta del Buonarroti appare come un'ambizione per lo meno proibitiva, tuttavia l'occasione si presentò quando Leone X donò una serie di preziosi arazzi i cui disegni furono chiesti a Raffaello e bottega.
Collocati nel registro inferiore, dove oggi vi sono dei finti tendaggi, gli arazzi avrebbero occupato un registro di estrema importanza perché ad altezza d'uomo e sarebbero stati utilizzati durante le cerimonie solenni della cappella magna.
Incredibile è immaginarsi questi tappeti di altissimo valore, al di sotto degli affreschi dei quattrocentisti, a riempire nella sua totalità la Sistina di colori e capolavori artistici.

Quello che più affascina ancora oggi, contemplandoli alla Pinacoteca Vaticana, è come un tessuto sia potuto diventare così simile ad un dipinto, quasi da non riuscire a riconoscerne la differenza, tale è la perfezione, "opera certo più tosto di miracolo che d’artificio umano", afferma Vasari.
Il giorno di Santo Stefano dell'anno 1519 il pontefice svelò a tutti gli splendidi arazzi. Fu il trionfo di Raffaello.
I disegni, di cui ancora oggi si conservano a Londra alcuni dei cartoni preparatori originali, furono realizzati dal Sanzio con la collaborazione dei suoi migliori allievi, Giulio Romano e Giovan Francesco Penni, quest'ultimo particolarmente dotato nell'arte del disegno. Sulla parete di destra, sotto le Storie di Cristo, furono collocati gli arazzi raffiguranti le Storie di San Pietro, mentre a sinistra, sotto alle Storie di Mosè, le Storie di San Paolo con in più il Martirio di Santo Stefano, scena legata alla festività in cui questi capolavori furono inaugurati.

Si trovano dunque la Consegna delle chiavi, nella quale si nota la precisa tessitura di ogni striscia di nube nel cielo, la Conversione di Saulo, il cui unico confronto possibile sarà con quella michelangiolesca della Cappella Paolina, la Predica di San Paolo ad Atene, simile come impostazione alla Scuola di Atene delle Stanze, infine la Pesca miracolosa, in cui le reti dei pescatori tremano a contatto con l'acqua e i colli degli uccelli acquatici sembrano palpitare davvero, come a cantare il prodigio.

Nessuno avrebbe potuto immaginare che pochi mesi dopo, il 6 aprile del 1520, Raffaello si sarebbe spento giovanissimo, all'età di soli trentasette anni, salutato per l'ultima volta dall'intera corte pontificia e dal papa, commosso, il quale lo avrebbe seguito, anche lui relativamente giovane, l'anno seguente, per volere di un destino beffardo e crudele. Si può dire però con certezza che entrambi, in quel giorno straordinario ed indimenticabile di dicembre, si erano già guadagnati l'eternità.

Quindici anni più tardi la Sistina aprì nuovamente le sue porte al genio di Michelangelo, il quale si apprestò a dipingere la parete d'altare, quella del Giudizio, qui visibile in una ricostruzione che ci mostra come doveva apparire prima dell'intervento del Buonarroti.

Il Giudizio universale

Fu papa Clemente VII Medici nel 1533 ad avere l'idea di far affrescare la parete d'altare della Sistina. Con quest'immensa impresa sarebbe stata completata l'intera cappella, a partire dalla Genesi passando per le Storie di Mosè e di Cristo, sino al Giudizio universale, come un vero e proprio manuale artistico e teologico figurato.
Il pontefice morì però quando Michelangelo stava iniziando a mettere mani ai cartoni preparatori, così come l'amato padre dell'artista.
Venne fatto papa Paolo III, il quale conferì al Buonarroti la carica di supremo architetto, scultore e pittore del Palazzo apostolico. Michelangelo tornò a Roma per non andarsene più.
Nell'anno 1535, all'età di sessant'anni, innalzò i ponteggi e tornò a lavorare per più di cinque anni nella totale solitudine di quelle mura.

Per lasciare spazio alla composizione michelangiolesca vennero sacrificati due dipinti di Pietro Perugino e furono chiuse le due finestre. L'artista decise inoltre di realizzare una leggera pendenza nel muro per far sì che sembrasse che il giudizio incombesse su chiunque lo guardasse; un tocco prodigioso che capiamo bene solo trovandoci al cospetto di questa scena monumentale senza confini.

Come nel caso della volta, le fasi iniziali del Giudizio comportarono alcune difficoltà per Michelangelo, le quali causarono anche la fine dell'amicizia tra lui e Sebastiano del Piombo, un suo caro allievo. Quest'ultimo fu infatti incaricato di preparare la parete, decidendo contro la volontà di Michelangelo di adottare la tecnica della pittura ad olio e convincendo il papa della superiorità di tale soluzione. La tecnica ad olio ha una lentezza di essicazione maggiore rispetto alla pittura a fresco, permettendo di avere il colore fluido per un tempo considerevole in cui l'artista può permettersi di apportare correzioni e modifiche. Michelangelo, però, definì la pittura ad olio "arte da donna", e si adirò moltissimo con l'amico, rimanendo irremovibile nella decisione di dipingere a fresco nonostante l'età e le cagionevoli condizioni di salute.

Dilombato, crepato, infranto e rotto
son già per le fatiche, e l’osteria
è morte, dov’io viv’ e mangio a scotto.

Proprio questi anni, in concomitanza con la dipintura del Giudizio, Michelangelo visse una profonda crisi spirituale, alla ricerca di un significato religioso per il quale mise tutto in discussione, anche la sua stessa arte, come ponendosi lui stesso al cospetto del glorioso Cristo giudice.

Immerso nel blu lapislazzulo tanto caro a Giotto, Gesù è raffigurato come un giovane eroe dalle bellissime fattezze, con il potente braccio destro sollevato. Una volta abbassato, il destino sarà compiuto e sarà fatta la volontà di Suo Padre. Attorno a Cristo non gravita solamente l'affresco, ma l'intera cappella, con la volta e le pareti laterali dei quattrocentisti che sembrano orbitare come pianeti attorno al proprio sole, attorno a Michelangelo.
Commovente è la figura della Vergine, raccolta in sé stessa, che sembra non voler assistere alla punizione dei reprobi. Ella non è più "refugium peccatorum" e non può ormai fare più nulla dinanzi al momento del giudizio.
Alla sinistra di Cristo, San Pietro restituisce le chiavi del regno dei cieli, ormai divenute un fardello inutile, le stesse che nel "tibi dabo claves" del Perugino Gesù gli aveva affidato. Un dettaglio bellissimo che segna l'ultimo giorno dell'umanità, la fine dei tempi e dunque anche della Chiesa, del papato.

Dalla parte opposta, alla destra di Gesù, più o meno nella stessa posa e con le medesime dimensioni, si vede San Giovanni Battista, riconoscibile dal manto di pelo di cammello.

Si nota chiaramente che lo strumento espressivo di Michelangelo è l'anatomia; il paesaggio è pressoché assente e un numero incredibile di nudi invade la parete. Ognuno di questi corpi si fa portatore della propria storia e racconta le aspirazioni, il male di vivere e l'intera esistenza del beato o del reprobo. Lo stesso Michelangelo si raffigura in un celeberrimo autoritratto nella pelle sorretta da San Bartolomeo, il quale fu scuoiato vivo, come se l'artista, ormai privo di forze, rinchiuso nel vero senso della parola nel proprio corpo sofferente e fra le mura della cappella, si augurasse di scontare le proprie colpe presentandosi a Dio in un involucro privo di vita.

I’ sto rinchiuso come la midolla
da la sua scorza, qua pover e solo,
come spirto legato in un’ampolla.

È un Michelangelo segnato dalle sofferenze e dalla perdita di molte persone care quello che dipinge il Giudizio, che arriva a scrivere, in un verso modernissimo quasi leopardiano:

La mia allegrezza è la maninconia.

Consapevole di essere arrivato al tramonto della sua esistenza, quando anch'egli avrebbe dovuto rendere conto di ogni opera giusta o sbagliata, Michelangelo mette in discussione la sua stessa arte. Ciò che lo ha reso "idolo e monarca" ora non gli basta più; né lo scolpire né tanto meno il dipingere potranno consolare la sua anima. Forse, scrive l'autore in un toccante sonetto a cui confida tutti i propri dissidi, è stata proprio l'arte, per mezzo della quale cercò di avvicinarsi a Dio, ad allontanarlo dalla salvezza.

Giunto è già ’l corso della vita mia,
con tempestoso mar, per fragil barca,
al comun porto, ov’a render si varca
conto e ragion d’ogni opra trista e pia.

Onde l’affettüosa fantasia
che l’arte mi fece idol e monarca

conosco or ben com’era d’error carca
e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia.
  Gli amorosi pensier, già vani e lieti,
che fien or, s’a duo morte m’avvicino?
D’una so ’l certo, e l’altra mi minaccia.
  Né pinger né scolpir fie più che quieti
l’anima, volta a quell’amor divino
c’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia.

Ecco perché quella che è l'unica via per raggiungere la salvezza è posta dall'artista così in alto nella composizione, quasi irraggiungibile nelle due lunette della estremità superiori dell'affresco, dove sono raffigurati gli strumenti della Passione di Cristo: la croce e la corona di spine a sinistra, la colonna della flagellazione e la canna dove fu posta la spugna imbevuta d'aceto a destra. Solo credendo alla morte e Resurrezione di Gesù si può dunque godere dell'eterna beatitudine.

Gli angeli annunciano la fine dei tempi, risvegliando i morti con le trombe dell'Apocalisse e mostrando i libri su cui è scritta la vita passata di ciascuno. Il libro più grande, rivolto verso il regno dei dannati, indica che molte sono le colpe commesse dagli uomini, mentre sono poche le virtù e i meriti contenute nel libro più piccolo rivolto ai beati.

Agli eletti il suono delle trombe giunge come una musica dolce; risvegliatesi dai sepolcri e rialzatesi da terra essi ascendono al paradiso, alcuni ancora in forma di scheletro.

I dannati devono invece tapparsi le orecchie per non rimanerne assordati, mentre precipitano verso l'inferno, dove regnano terrore, angoscia e disperazione, spinti da demoni inquietanti.
Scrisse Stendhal nelle pagine di Passeggiate romane: "Mai nessun pittore ha fatto nulla di simile, e non s'è mai visto uno spettacolo così orribile. Si vedono i poveri dannati trascinati al supplizio dai demoni. Michelangelo ha qui trasfigurato le spaventose immagini che la focosa eloquenza di Savonarola aveva un tempo impresso nel suo animo".

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente. [...]

Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.

Inferno, Canto III, vv. 1 - 3, 9

Una delle fonti letterarie a cui si ispirò Michelangelo fu sicuramente la Divina Commedia dell'amato Dante i cui versi sono stati presi fedelmente nella raffigurazione di alcuni personaggi, sebbene con alcune personali interpretazioni.
Si nota infatti Caronte, alla base dell'affresco, il demone dallo sguardo di fuoco traghettatore del fiume infernale Acheronte. Benché le fattezze del nocchiere siano le medesime citate da Dante, la scena raffigurata è quella dello sbarco delle anime, mentre Caronte le batte con il remo; il Poeta ci descrive invece l'imbarco.

Ed ecco verso noi venir per nave un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: «Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder lo cielo: i’ vegno per menarvi a l'altra riva ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo». 

Inferno, Canto III, vv. 82 - 87

Poco più in basso, nell'estremità di destra, il giudice Minosse esamina le colpe dei dannati, giudicandoli e assegnando loro il cerchio dell'inferno in cui dovranno scontare la propria pena attorcigliando la coda di serpente.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe nell’entrata; giudica e manda secondo ch’avvinghia.

Inferno, Canto V, vv. 4 - 6

Nel suo volto si scorge il ritratto grottesco di Biagio da Cesena, il cerimoniere del papa che considerava indegna la nudità dei corpi dei peccatori. Scrisse al riguardo Giorgio Vasari: "Messer Biagio da Cesena maestro delle cerimonie e persona scrupolosa, che era in cappella col Papa, dimandato quel che gliene paressi, disse essere cosa disonestissima in un luogo tanto onorato avervi fatto tanti ignudi che sì disonestamente mostrano le lor vergogne, e che non era opera da cappella di papa, ma da stufe e d’osterie. Dispiacendo questo a Michelagnolo e volendosi vendicare, subito che fu partito lo ritrasse di naturale senza averlo altrimenti innanzi, nello inferno nella figura di Minòs con una gran serpe avvolta alle gambe fra un monte di diavoli".

Quando venne svelato al pubblico, il Giudizio suscitò allo stesso tempo ammirazione e sgomento. Era la vigilia di Ognissanti del 1541, lo stesso giorno in cui, nel 1512, erano stati svelati gli affreschi della volta.
Il primo a rimanere sconvolto al cospetto dell'opera fu papa Paolo, che secondo le testimonianze dell'epoca si inginocchiò in preghiera con le lacrime agli occhi, consapevole che presto quel giudizio sarebbe toccato anche a lui, successore di Pietro.
Così il Vasari: "E mentre che si guardano le fatiche dell’opera sua, i sensi si stordiscono solo a pensare che cosa possono essere le altre pitture fatte e che si faranno, poste a tal paragone".

Finché vissero Paolo III e Michelangelo il Giudizio non rischiò di essere distrutto, benché ritenuto indecoroso, tuttavia appena dopo la morte dell'artista il Concilio di Trento condannò la nudità nell'arte religiosa mettendo in discussione centinaia di opere, tra cui la Cappella Sistina.
Se ancora oggi possiamo ammirare l'opera è grazie all'intervento di uno dei migliori allievi di Michelangelo, Daniele da Volterra, il quale, passato alla storia come il "Braghettone", accettò a malincuore l'incarico di intervenire direttamente sulla parete per coprire le parti più scandalose, cercando di compiere un lavoro minimo, quasi impercettibile. L'assumersi questa responsabilità fu di estrema importanza perché probabilmente altri pittori, magari rivali del Buonarroti, ne avrebbero alterato l'intera composizione, non permettendo alle generazioni future di contemplare tanta meraviglia.

La più grande delle infinite felicità per cui lodo Dio è la fortuna di aver conosciuto Michelangelo Buonarroti...

Giorgio Vasari

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Note

Le citazioni della pagina sono state tratte da:

  • Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari
  • Rime di Michelangelo Buonarroti
  • Divina Commedia di Dante Alighieri
  • Passeggiate romane di Stendhal
  • Viaggio in Italia di Goethe

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