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Tra i numerosi discepoli della bottega di Raffaello Sanzio, l'artista più noto e originale è certamente il romano Giulio Pippi, pittore e architetto che lavorò dapprima all'ombra del maestro nella Roma dei primi decenni del Cinquecento - quando la città era il maggior artistico del mondo - e in seguito in autonomia a Mantova, dove rimase sino alla morte, luogo in cui, grazie al mecenatismo di Federico II Gonzaga, ebbe modo di mostrare il proprio talento nei progetti architettonici e nella decorazione pittorica di Palazzo Te, interpretando all'interno della corte dei Gonzaga il ruolo svolto dal Sanzio nella Roma dei papi.
Erede della bottega raffaellesca insieme a Giovan Francesco Penni, Giulio Romano nacque intorno al 1599 da una famiglia borghese, entrando sin da subito in contatto con il giovane Raffaello. Scrive a riguardo, nelle meravigliose pagine delle Vite, il biografo aretino Giorgio Vasari: «veramente si poté chiamare erede del graziosissimo Raffaello sì ne' costumi, quanto nella bellezza delle figure nell'arte della pittura; come dimostrano ancora le maravigliose fabbriche fatte da lui e per Roma e per Mantova, le quali non abitazioni di uomini, ma case degli dèi per esempio fatte degli uomini ci appariscono».
Vasari, che conosceva personalmente l'artista, indica il 1492 come anno di nascita, una data più consona con l'inizio della collaborazione con Raffaello, avvenuta verso il 1510-1512, poco dopo di quando Raffaello, nell'estate del 1508, era stato chiamato a Roma per volere di papa Giulio II Della Rovere.
Prosegue Vasari: «Fu Giulio Romano discepolo del grazioso Raffaello da Urbino, e per la natura di lui mirabile et ingegnosa, meritò più de gli altri essere amato da Raffaello, che ne tenne gran conto, come quello che di disegno, d'invenzione e di colorito tutti i suoi discepoli avanzò di gran lunga. E ben lo mostrò Raffaello, mentre ch'e' visse, nel farlo di continuo lavorare su tutte le più importanti cose che egli dipignesse, nelle quali, come curioso e desideroso d'imitare il suo maestro, attese molto alle cose d'architettura».
L'inizio della collaborazione con il maestro urbinate, che lo amerà sempre come un figlio, avviene nel grandioso progetto decorativo delle Stanze Vaticane, un tempo appartamenti privati del pontefice, ed in particolare nella Stanza di Eliodoro, dove è probabile che Raffello lo abbia coinvolto nell'elaborazione degli sfondi architettonici degli affreschi. L'intervento diretto di Giulio Romano si può vedere chiaramente, tuttavia, nell'ultima stanza a cui lavorò personalmente Raffaello, quella dell'Incendio di Borgo, attestata nei documenti come "triclinium", ovvero una sala da pranzo in cui erano ammessi solamente pochi invitati, che potevano godere degli interventi raffaelleschi e, sopra di loro, della volta di Pietro Perugino. L'affresco principale, per cui è divenuta nota, mostra una scena concitata finalizzata alla celebrazione del nuovo pontefice, Leone X Medici, attraverso il ricordo dell'illustre predecessore Leone IV, il quale si affaccia dall'antica basilica costantiniana per impartire la benedizione, riuscendo a placare il divampare delle fiamme che affliggevano il quartiere dinanzi alla basilica.

Maggiore spazio d'esecuzione, seguendo i disegni preparatori del Sanzio, trovò Giulio Romano nell'ultima sala del percorso delle Stanze raffaellesche, quella dedicata a Costantino, un ambiente ampio e sfarzoso, adibito a cerimonie, a cui Raffaello cominciò a lavorare un anno prima della sua morte, avvenuta nel 1520, lasciando sempre più spazio ai propri allievi, che ne portarono a termine la committenza entro il 1524 regnante Clemente VII Medici, superando la concorrenza di Sebastiano del Piombo, pittore emergente protetto nientemeno che da Michelangelo Buonarroti. Qui l'incontro fra Raffaello e il talento del suo allievo prediletto trova forse il vertice espressivo, in particolare nella Battaglia di ponte Milvio, un'opera immensa, gremita di figure, al cui centro spicca la figura di Costantino a cavallo, vittorioso sull'usurpatore pagano Massenzio, che annega nelle acque del Tevere.

Seguono cronologicamente le scene del Battesimo di Costantino, attribuita per la maggior parte a Giovan Francesco Penni, e della Donazione di Roma, quest'ultima opera importante per diverse ragioni, anzitutto per la maturazione di uno stile più autonomo, sebbene sullo stile di Raffaello, da parte di Giulio Romano, aiutato certamente dal Penni e, forse, da Raffaellino del Colle. L'artista si mostra particolarmente interessato, in questa scena d'interno, all'esatta raffigurazione prospettica e all'architettura, come si nota nelle solenni colonne tra le quali, a sinistra, vediamo Costantino che dona la città di Roma a papa Silvestro I, un'immagine a noi preziosa poiché ci restituisce un'idea di come doveva apparire l'antica basilica costantiniana.

Si nota come l'architettura fu sin da subito una grande passione per l'artista romano, influenzato dai cantieri cittadini ed in particolare dai lavori di costruzione della nuova Basilica di San Pietro, affidati a Donato Bramante per volere di papa Giulio II. All'architetto urbinate, che guardava all'antico e alla perfezione classica, seguì il concittadino Raffaello, erede designato, ed è possibile ipotizzare che la direzione sarebbe potuta passare a sua volta a Giulio Romano, tuttavia l'immensa fabbrica, a seguito della morte del Sanzio, conobbe lunghe fasi elaborative e di interruzione, sotto Antonio da Sangallo il Giovane prima e Michelangelo poi, con Giulio Romano che era già stato chiamato a Mantova, dove si trasferì definitivamente anche per le vicende politiche attraversate dalla città papale, sconvolta nel 1527 dal Sacco di Roma.
Nell'ambito architettonico un'esperienza decisiva nella formazione di Giulio Romano fu la costruzione di Villa Madama, una committenza medicea affidata a Raffaello sotto Leone X per volere dell'allora cardinale Giulio de' Medici, futuro Clemente VII. La residenza gentilizia, che sorge alle pendici di Monte Mario, fu cominciata da Raffaello per poi proseguire proprio con l'allievo, il quale ne ereditava, per testamento, i principali progetti già avviati, anche in ragione del fatto, sostiene il Vasari, che Giulio Romano godeva di un ruolo decisivo già nelle prime fasi dei lavori alla villa. Queste furono le ragioni per cui l'incarico gli venne affidato a seguito della scomparsa di Raffaello, essendo l'unico in grado di proseguirne le idee, come se il genio del maestro continuasse a vivere nell'allievo. Nonostante la villa rimase incompiuta e in un stato di progressivo abbandono per le ragioni già dette in precedenza, divenendo un interesse secondario per il nuovo pontefice in uno scenario tanto instabile, l'opera è sicuramente una delle più interessanti dell'artista. Aggiunge Vasari con parole di lode: «La quale opera e per le fontane, che rustiche fece lavorar, e per quelle che domestiche ci sono, e per ogni ornamento fattovi è la più bella che sia fuor Roma, per ispasso di vigne e per grandezza e bellezza di luogo».
Villa Madama in un'incisione settecentesca di Giuseppe Vasi.
Un'altra residenza nobiliare a cui è legato il nome di Giulio Romano è Villa Farnesina, vera e propria corte umanista, ritrovo di artisti, poeti, principi e cardinali, voluta dal ricco banchiere senese Agostino Chigi come fastosa dimora romana, omaggio all'amata Francesca Ordeaschi. Il mecenate - intenzionato, come tipico dell'epoca, a mostrare il proprio prestigio servendosi dell'arte - scelse il concittadino Baldassarre Peruzzi quale architetto, affidando le decorazioni degli interni al migliore artista dell'epoca, vale a dire Raffaello, che anche qui, essendo oberato di lavoro, relegò sempre più ai propri discepoli, in un ruolo di sovrintendente e supervisore della sua prolifica bottega. Nella Loggia di Psiche, luogo delizioso affrescato a partire dal 1518 che funge da tramite tra l'interno e il cortile della villa, si possono così riconoscere gli interventi di Giulio Romano, per esempio nei dettagli del volo di Mercurio o di Venere, ma anche di Giovan Francesco Penni e infine, nei festoni carichi di frutta che fanno da cornice alle figure, di Giovanni da Udine.



Nel 1524 fu invitato a Mantova come artista di fiducia di Federico II Gonzaga, il quale aveva seguito la sua carriera grazie a Baldassarre Castiglione, umanista e ambasciatore del signore mantovano presso la Santa Sede. Sebbene il prestigioso incarico, che gli permetteva di assumere una posizione di monopolio e di influenzare per sempre l'arte della città, accettare non fu semplice per Giulio Romano, deciso nel portare a termine i lavori che Raffaello non aveva avuto modo di terminare.
Mantova era una delle corti più importanti del Rinascimento grazie alla famiglia dei Gonzaga e la loro reggia la più estesa dopo i Palazzi Vaticani. Uno dei luoghi più suggestivi che vi si possono ammirare è proprio opera di Giulio Romano, ossia Palazzo Te, edificato in una decina d'anni tra la fine del 1524 e il 1534, splendida testimonianza della sua inventiva, di cui Vasari scrive: «la quale opera, per non esservi pietre vive, fece di mattoni e di pietre cotte lavorate, con colonne, base, capitegli, cornici, porte e finestre, con bellissime proporzioni e stravagante maniera di adornamenti di volte, spartimenti, con ricetti, sale, camere et anticamere divinissime. Le quali non abitazioni di Mantova, ma di Roma paiono, con bellissima forma di grandezza E fece dentro a questo edifizio, in luogo di piazza, un cortile scoperto, nel quale sboccano in croce quattro entrate».

Il palazzo, concepito come una sontuosa villa suburbana in cui è sviluppato e ampliato il tema raffaellesco di Villa Madama, presenta una pianta quadrata in cui dal Cortile d'Onore si accede sul retro, attraversando una bellissima loggia, ad un vasto giardino che culmina con un'ampia e scenografica esedra. Un'altra entrata del cortile conduce invece nelle sale interne, dove si possono ammirare nella decorazione i veri capolavori di Giulio Romano per fantasia scenografica e qualità pittorica.
Il nome dell'edificio non si riferisce alla bevanda, come si potrebbe credere, bensì al nome dell'isola su cui sorgeva, Tejeto, abbreviata in Te, che derivava forse da tiglieto, cioè località dei tigli; in passato vi era infatti un fitto bosco di questi alberi. L'isola era paludosa e raggiungibile solamente in barca; Federico II decise di bonificarla adibendola a luogo di addestramento dei suoi pregiati e amatissimi cavalli, nonché dimora di ricevimenti e soprattutto d'incontro e svago in compagnia dell'amata Isabella Boschetti.

All'interno si possono ammirare come detto i magnifici affreschi di Giulio Romano, a cominciare dalla Sala dei cavalli, destinata al ballo, dove vi sono raffigurati i ritratti a grandezza naturale dei sei destrieri preferiti dal principe Gonzaga e la Sala di Amore e Psiche, la sala da pranzo, la cui storia è tratta dalle Metamorfosi di Apuleio, mentre nella realizzazione è ovviamente ispirata alla Loggia di Villa Farnesina, approfondendo e sviluppando in scene più articolate il prototipo raffaellesco, in un'atmosfera sensuale che sottrae al mito ogni sacralità. Psiche è costretta a superare delle prove e delle sventure a causa di Venere, madre di Amore, che non sopportava di essere superata in bellezza da una donna mortale. Amore, però, è colpito dalla bellezza di Psiche e se ne innamora perdutamente. Gli affreschi sono un evidente riferimento alla storia d'amore tra Federico e Isabella, la quale era già sposata ma legata al duca sin da quando erano bambini. La madre di Federico, Isabella d'Este, una delle figure femminili più rilevanti e raffinate del Rinascimento italiano, capace di creare un vero e proprio centro culturale nella città, disapprovava la relazione e assume quindi le sembianze di Venere nei dipinti. Così il Vasari: «Arrivasi poi in una stanza, ch'è sul canto del palazzo, nella quale sono nella volta le storie di Psiche, veramente bellissime, e nel mezzo alcuni dèi che scortano al di sotto in su, che di rilievo e non dipinti paiono. La forza de i quali buca la volta con la bellezza de' contorni e con lo essere di colori con dottissima arte dipinti. Nelle facciate attorno fece varie istorie, tutte divinissime e belle, et una baccanaria per un sileno, che maraviglia è credere che si possa far meglio ne gli strani fauni, satiri, tigri, et una credenza di festoni pieni d'argenti, che i lustri de gli ori e de gli argenti mostra vivissimi in varie fogge di lavori stranamente fatti da gli orefici. Le quali capricciose invenzioni dottamente con senso poetico e pittoresco ha garbatissimamente finite».

Il capolavoro concepito più di ogni altro al fine di stupire e lasciare senza fiato ogni ospite del palazzo è però la Sala dei giganti, la più grande dell'edificio, affrescata tra il 1532 e il 1535, paragonabile al contemporaneo Giudizio universale michelangiolesco per scenografia pittorica. L'episodio è basato sulla Gigantomachia di Ovidio e narra di quegli esseri terrificanti, i giganti, che cercano di prendere il potere, rovesciando il mondo degli dei. Giove, la massima divinità dell'Olimpo, li affronta colpendoli con dei fulmini. Travolti dalla montagna su cui stavano salendo per raggiungere l'Olimpo, vengono schiacciati da massi e dalle costruzioni dentro le quali si erano nascosti. Il richiamo allegorico è alla crisi religiosa e all'instabilità politica di quegli anni, in particolare a Carlo V d'Asburgo, vittorioso sui nemici protestanti, recatosi in visita a Mantova per incontrare il suo alleato Federico Gonzaga, rimanendo estasiato alla vista della volta.

La sala presenta un soffitto a cupola, dipinto in maniera meravigliosa con una cornice di nubi che separa il mondo degli uomini dal mondo degli dei. La caratteristica che rende l'opera tanto suggestiva è che la pittura copre completamente tutta la superficie disponibile in un unico affresco, senza spigoli, in cui lo spettatore si trova al centro dell'evento come a farne parte. Un altro effetto speciale è quello del movimento; gli dei nella cupola non appaiono infatti statici, soprattutto se si immagina la scena illuminata non da luce artificiale, come oggi, bensì da un camino che era posto al centro della stanza. Afferma il Vasari: «Né si pensi mai uomo vedere di pennello cosa alcuna più orribile o spaventosa, né più naturale. Perché chi vi si trova dentro, veggendo le finestre torcere, i monti e gli edifici cadere insieme coi Giganti, dubita che essi e gli edifizi non gli ruinino addosso».

Vasari si recò personalmente nel 1541 a Mantova per fare visita a Giulio Romano, trovando un artista divenuto ormai celebre e ricco, al punto che anni dopo il cardinale Ercole Gonzaga, successore di Federico alla reggenza del ducato, ricorderà «Giulio essere più padrone di quello stato che non era egli». In qualità di superiore generale delle fabbriche del Duca di Mantova poté anche costruirsi un proprio palazzo nel centro della città, oggi chiamato Casa di Giulio Romano, una delle prime case di architetto di misura tanto ambiziosa, in cui imitò lo stile del Bramante e di Raffaello, pur con qualche licenza architettonica che si esprime nell'ingresso con arco ribassato o nel basamento rustico in contrasto col piano nobile.
Solamente negli ultimi anni di vita l'artista ebbe modo di occuparsi di costruzioni sacre ed in particolare dal 1545 della ristrutturazione dell'interno del Duomo di Mantova. Il suo stile, pur dovendo tenere conto delle strutture medievali, denota la mancanza di un carattere tipicamente sacrale, al contrario dei progetti raffaelleschi per San Pietro, pur cercando di conferire alla cattedrale un aspetto che richiamasse l'antica basilica costantiniana, per esempio nell'ampia struttura a cinque navate. Le colonne corinzie scanalate della navata centrale appaiono estremamente pesanti e proprie di un lussuoso palazzo, piuttosto che di una cattedrale, così come il soffitto sembra soffocare qualsiasi ascesa verso Dio; bisogna dire, tuttavia, che un intervento di ristrutturazione come questo, tenendo conto dei vincoli della vecchia struttura, sarò eguagliato solamente da Francesco Borromini nella Basilica di San Giovanni in Laterano a Roma. Tale intervento pone in connessione l'architetto con il Rinascimento romano e quel nuovo classicismo che non rinunciava ad imitare l'antico, dunque il suo stile si può in definitiva dire di passaggio - se consideriamo le decorazioni così audaci, licenziose e virtuosistiche - tra il Rinascimento e il Seicento, anticipando lo stile barocco per il gusto dell'enfasi e dello straordinario, dando inizio a quella fase che trovò espressione nella seconda metà del Cinquecento che i manuali definiscono Manierismo.
Nel novembre 1546 la morte gli impedì di fare ritorno a Roma per sostituire Antonio da Sangallo come primo architetto della basilica petrina. I lavori vennero allora affidati al Buonarroti.

Per concludere è bello pensare che sia proprio Giulio Romano il giovane che vediamo raffigurato in primo piano nel celebre Autoritratto con un amico di Raffaello, dipinto tra il 1518 e il 1520, oggi custodito al Louvre di Parigi. Non si conosce esattamente l'identità del soggetto, ma la critica sostiene che si tratti di un allievo del genio di Urbino, la cui mano sulla spalla del giovane lascia pensare ad un passaggio di consegne, come realmente avvenuto. La somiglianza con Giulio Romano risulta inoltre evidente. Quest'ultimo è rivolto verso il maestro e sembra indicare la via che dovrà seguire proseguendo il suo esempio. Raffaello guarda l'osservatore come ad affidargli l'amato allievo, colui che, insieme a tutti coloro che ne imiteranno lo stile, renderà eterna la sua esistenza.

Bibliografia
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