Canto V

Paolo e Francesca

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.

Vertice assoluto di bellezza nella letteratura di tutti i tempi, il Canto V dell'Inferno della Divina Commedia, ambientato nel girone dei lussuriosi, è il canto dell'amore, della poesia più nobile e romantica, nei cui versi celeberrimi Dante porta a compimento ogni principio dello stilnovo, ponendosi a modello ineguagliabile per ogni scrittore successivo e sfiorando l'eternità più che in ogni momento del poema, anche della cantica del Paradiso.
L'anelito al per sempre, che pervade il canto, è narrato da una donna, Francesca da Rimini, ed è la prima volta che una figura femminile prende la parola nella letteratura, a testimonianza della grandezza di Dante. L'attenzione è posta al sorgere del sentimento che l'ha legata a Paolo, al divampare nel loro cuore della passione quando ancora erano ignari di essere innamorati, in una storia travolgente e stupenda per cui il Poeta prova un profondo moto di pietà, altro elemento struggente tenendo presente l'ambientazione infernale, come a condividere il peccato dei due amanti, ancora uniti nonostante la morte, come se egli stesso preferisse la dannazione piuttosto di non aver mai provato un'emozione simile.
Scesi nel secondo girone, Dante e Virgilio si imbattono nel giudice Minosse, guardiano infernale che assegna ai reprobi il luogo dove scontare la loro pena eterna, attorcigliando la coda tante volte quanti sono i cerchi che dovranno scendere. Come già accaduto con Caronte nel Canto III, Minosse ammonisce il Poeta, vedendo che è ancora vivo, dicendogli di non fidarsi della spaziosità del luogo, ma neanche di Virgilio, che prontamente gli ordina di non incutere paura a Dante, il cui viaggio è stato voluto dall'alto.

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare.

Minosse (dettaglio del Giudizio Universale) - Michelangelo Buonarroti - 1540 circa - Città del Vaticano, Cappella Sistina

Superato Minosse ed entrati nel girone, dove si odono pianti e grida di dolore, Dante e Virgilio si imbattono nella schiera dei lussuriosi, colpiti, per contrappasso, da un vento impetuoso che li sospinge trascinandoli da ogni parte proprio come nella loro vita si sono lasciati traportare dalle passioni. Virgilio comincia l'elenco delle tante anime di donne e cavalieri che si trovano in questo cerchio, fra cui Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, la cui bellezza scatenò la guerra di Troia, ma anche il valoroso Achille, Paride e Tristano, morto d'amore per la bella Isotta.
Colpito da due anime che, nella tempesta di vento, procedono insieme e sono ancora unite nonostante la morte, Dante, mosso da compassione, chiede a Virgilio chi siano ed il maestro risponde di chiamarli in nome di quell'amore che li lega.

Come colombe mosse dal desiderio amoroso, i due spiriti si avvicinano a Dante e la donna comincia a raccontare la loro storia, nonostante questo le provochi un dolore più vivo che mai. Sono Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, gli amanti più noti di tutta la nostra letteratura la cui vicenda amorosa realmente vissuta ha ispirato le più grandi storie d'amore dell'inventiva poetica, basti pensare a Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Proprio un libro si rivelerà nel canto "Galeotto", un termine entrato nel linguaggio colloquiale ad indicare colui che è stato intermediario amoroso, con Dante che vuole spiegarci come la lettura possa aprirci alla sensibilità, al conoscere l'intimità della nostra anima.
Nelle parole di Francesca, nonostante la sofferenza perpetua, si rivela, sottilmente, una certa felicità, a testimonianza della grandezza psicologica del Poeta, un appagamento per essere ancora con il suo amato che nemmeno la morte è riuscita ad allontanare da lei. Non vi è inoltre neppure un verso nel quale Francesca arrivi anche solo lontanamente a rinnegare il suo sincero affetto per Paolo, nonostante la morte, nonostante la dannazione.
Francesca rammenta la propria terra d'origine, Rimini, con quell'infinita dolcezza che caratterizza la sua personalità, scolpita per sempre nell'opera e nel nostro ricordo. Nella sua figura e nella raffinatezza dei modi ella diviene una vera e propria donna angelicata dello stilnovo ma all'Inferno, capacità unica del Poeta, il quale si dimostra interessato, rispondendo con altrettanta gentilezza, nel capire il modo in cui ella scoprì di essere veramente innamorata e quando Paolo trovò il coraggio di dichiarare i propri timorosi sentimenti.
Francesca comincia allora il vero racconto, nonostante: "Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria". Spiegando come l'amore divampi nel cuore gentile delle anime degli innamorati e come questo sentimento non sia mai sprecato se veramente sincero, Francesca, con un solo endecasillabo, afferma che non esiste amore sprecato e che, quasi fosse una legge scritta nel firmamento, prima o poi una scintilla dell'amore donato ritorni sempre: "Amor, ch'a nullo amato amar perdona".
Intenti, per trascorrere il tempo, a leggere il libro di Lancillotto e Ginevra, una volta giunti alla pagina in cui era descritto il bacio fra i due amanti, Paolo, in preda all'emozione, fu incoraggiato dalla lettura a baciare, tutto tremante, la bocca di Francesca. Da quel giorno non poterono più continuare la lettura, uccisi dal marito di lei e fratello di Paolo, Gianciotto, il quale, ancora vivo, è atteso in una zona molto più in basso della voragine infernale, la Caina, riservata ai traditori dei parenti.
Durante l'intero monologo della donna, scopriamo solamente nel finale come Paolo, in disparte, abbia pianto per l'intero racconto: "Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangea". Si tratta di una sentenza con cui Dante riassume tutto il profilo umano e psicologico del protagonista del canto, portando alla commozione il lettore.
Profondamente turbato dal racconto di Francesca, provando pietà e condividendo i sinceri sentimenti che hanno unito i due amanti, forse temendo eguale condanna per sé, Dante cade a terra privo di sensi: "E caddi come corpo morto cade".
Paolo e Francesca li immaginiamo invece fare ritorno nella bufera infernale dove sono stati confinati per scontare la loro dannazione, ancora insieme come se anche il cielo avesse provato pietà per loro. Ricordati per sempre così, nel vento, uniti nella sofferenza e ancora innamorati, di loro rimarrà la sensazione che l'amore possa veramente vincere la morte e che un'anima innamorata sia in grado di accarezzare e comprendere intimamente il significato più profondo dell'eternità.

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