Il Sommo Poeta

DI MARCO CATANIA

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Francesco Borromini

Quando nell'ambito artistico si parla di Barocco si intende quella fase creativa che si sviluppò nel corso del XVII secolo, nella quale emersero artisti quali Caravaggio, Pietro da Cortona, Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini, autori che cambiarono per sempre l'aspetto di Roma, proseguendo l'esempio dei grandi maestri del Rinascimento e facendosi inventori di nuove forme, introducendo la capacità di coinvolgere lo spettatore per comunicare più facilmente il messaggio religioso o politico dei committenti. Occupandosi costantemente di opere religiose, questi maestri dell'arte moderna interagirono personalmente con le proprie creazioni, rendendole portatrici di ambizioni e turbamenti, angosce e passioni, cercando attraverso di esse un senso al proprio lavoro e al proprio esistere, rivelando all'osservatore un significato profondo che è quello della bellezza, specchio della loro vita e della loro arte. Se in Bernini l'arte è tuttavia rivelazione e stupore, specchio del divino nel mondo, per Borromini l'arte - in modo analogo allo spirito caravaggesco - è ricerca e preghiera, rifugio da un'inquietudine sinonimo di un animo in perenne equilibrio tra autentiche gioie e insanabili delusioni. Tale è l'architettura di Borromini, il quale guarderà sempre all'interiorità, a quanto vi è di più recondito in un'opera piuttosto che all'esteriorità e a quello spettacolo scenografico barocco totale e totalizzante nel senso berniniano del termine. Grande religioso, dal temperamento malinconico e tormentato, Borromini avrà fortuna solamente a seguito della propria morte, riuscendo tuttavia a trovare il senso dell'eternità attraverso la convinzione di lavorare per il futuro piuttosto che per il presente, nonché per la sua attenzione allo spirituale, al senso teologico dell'architettura, che funge da ricerca di Dio attraverso il rigore geometrico delle strutture e degli spazi.

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L'armonia, la misura e la linearità dei suoi disegni e dei suoi progetti architettonici - come ben si evince dalla cupola di San Carlo alle Quattro Fontane a Roma - derivano certamente dalla formazione lombarda dell'architetto, imparentato alla lontana con artisti che saranno protagonisti proprio a Roma e nei progetti per la Basilica di San Pietro, vale a dire Domenico Fontana e Carlo Maderno.
«Fu Francesco Borromino uomo di grande e bell'aspetto, di grosse e robuste membra, di forte animo, e d'alti e nobili concetti. Fu sobrio nel cibarsi, e visse castamente», ricorda di lui il biografo Filippo Baldinucci nel 1687, mentre aggiunge Lione Pascoli nel Settecento con toni quasi romanzeschi: «Fu di temperamento sano, e robusto, di non brutto aspetto, benché torbido alquanto, e capriccioso, alto, pieno, e nerboruto, nero di crine, e bronzino di faccia, casto, ed illibato; e conservò fin all'ultimo l'innata nobiltà del generoso suo tratto, e del signoril suo animo. Vestì sempre di nero, e quasi alla spagnuola, ma con parrucca, e basette. Faticò continuamente con isviscerato amore verso la professione; né disprezzò mai le sue convenienze, e il suo decoro».
Borromini nacque il 27 settembre dell'anno 1599 nel piccolo borgo di Bissone, nei pressi del Lago di Lugano, e si trasferì giovanissimo a Milano, dove sarà influenzato dall'arte gotica e da una delle cattedrali più suggestivi al mondo, il Duomo, che dovette impressionarlo notevolmente e in modo indelebile, come tipico di un ragazzo che scopre la propria vocazione. Giunto a Milano nei primi del Seicento, per recarsi quale apprendista dallo scultore Andrea Biffi, possiamo paragonare l'esperienza di Borromini al protagonista di un romanzo ottocentesco ambientato proprio nei suoi giorni, ossia I promessi sposi di Alessandro Manzoni, in cui lo scrittore immagina così l'arrivo in città di Renzo Tramaglino - proveniente anch'egli da un piccolo villaggio lagunare - al cospetto dell'immensa cattedrale gotica: «Renzo, [...] vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell'ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino».

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Il Duomo in costruzione in un'incisione settecentesca di Marcantonio Dal Re.

Renzo, folgorato dinanzi a tanta grandiosità, riesce per un attimo a dimenticare i suoi guai e ad abbandonare le proprie preoccupazioni - capacità unica della bellezza -, affanni che l'ancor giovane e aspirante architetto non doveva avere, ma che diverranno compagni costanti nel corso della sua tormentata esistenza. L'immagine del Duomo - nella sua ambizione architettonica di raggiungere il cielo, ma anche quale nostalgico passato di una fanciullezza ormai perduta - diverrà fonte di ispirazione per Borromini negli anni romani, in un'idea di architettura che, sebbene lineare e armonica come detto, non rinuncia a soluzioni ardite e cariche di riferimenti simbolici, come in Sant'Ivo alla Sapienza, un omaggio straordinario, nella Roma dei papi, al gotico lombardo e alle guglie del Duomo.

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A seguito della breve esperienza nella Milano dei Borromeo - una città nella quale poté accostarsi alla prima grande fabbrica architettonica della sua vita, lavorando come scalpellino per il Duomo - Borromini raggiunse Maderno a Roma, dove ebbe modo di entrare nel grandioso cantiere per la Basilica di San Pietro, per la quale Maderno, dopo aver allungato la pianta con un corpo longitudinale, stava lavorando alla facciata, concludendo una fabbrica che vide susseguirsi nei progetti artisti quali Donato Bramante, Raffaello Sanzio e Michelangelo Buonarroti. Nel giro di pochi anni Borromini, grazie alle proprie abilità nel disegno, divenne il primo aiutante dell'architetto, che nel frattempo era sempre più stanco e malato. Venuto a mancare Maderno, l'incarico di primo architetto della basilica passò tuttavia a Gian Lorenzo Bernini, sostenuto da papa Urbano VIII Barberini. Fu la prima delusione per Borromini, che oltre alla perdita dell'amato maestro si trovò inaspettatamente alle dipendenze di un artista, di appena un anno più anziano, noto maggiormente come scultore. Bernini fu incaricato da Urbano di realizzare un baldacchino da collocare sopra la tomba di Pietro, unendo l'altare papale della Confessione, dove il pontefice dichiara la sua fede in Cristo, alla tomba dell'apostolo e alla maestosa cupola michelangiolesca, vertice della cristianità. Borromini, a cui molto probabilmente si deve l'idea delle colonne tortili, concepì vari disegni per la solenne struttura, tenendo conto e verificando l'ingombro di un'opera alta quasi trenta metri. Il risultato fu uno dei manifesti dell'arte barocca, in cui le colonne tortili in bronzo spiccano nella crociera accompagnando i fedeli nel cuore della basilica, per un capolavoro di vibrante leggerezza nonostante l'incredibile altezza. Qui si incontrarono per la prima volta i geni di Bernini e Borromini, destinati per molti anni a lavorare parallelamente nella Roma a cui diedero il volto barocco, Bernini attraverso la grandezza e lo stupore dell'arte totale, cercando di unire architettura, scultura e pittura in un'unica opera, mentre Borromini lavorando spesso su piccola scala, esprimendosi esclusivamente attraverso l'architettura, cercando in essa l'equilibrio e una serenità che egli, novello Caravaggio, inseguì tutta la vita.

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Il transetto della basilica con al centro il baldacchino berniniano in un'incisione di Giovanni Battista Piranesi.

Questa scala minuta con cui Borromini trovò a confrontarsi - spiegandoci come il barocco non si esprimi solamente nello sfarzo scenografico e nella grandiosità - si può capire benissimo analizzando la sua prima commissione quale architetto autonomo, ovvero la Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, nota anche come San Carlino, un luogo a cui fu legato per sempre, dapprima per i lavori nel chiostro, in quello che è lo spazio architettonico con cui comincia la sua carriera, ed infine nella facciata, rimasta incompiuta da Borromini e ultimata dal nipote solamente negli anni Ottanta del Seicento. In questa chiesa si esprime concretamente la carica innovativa della sua architettura, dimostrando di saper trasformare gli ostacoli dovuti ai piccoli spazi in opportunità, proprio in contrapposizione con Bernini, impegnato invece in San Pietro. Si dice infatti a tal proposito che la "deliziosa chiesetta" di San Carlo, come la definisce lo scrittore francese Stendhal, possa rientrare con il suo volume in uno solo dei pilastri che reggono la cupola della basilica petrina: «La chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane occupa esattamente lo spazio di questi pilastri e non sembra piccola», scrive Stendhal sottolineando l'emozione nel trovarsi all'interno di San Pietro, ma restituendoci anche l'idea concreta di come Borromini sia stato geniale nel dare forma a uno spazio relativamente ridotto per ospitare un'intera chiesa, riuscendo allo stesso tempo a non farla apparire piccola al visitatore.

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In questa incisione settecentesca di Giuseppe Vasi si nota come la chiesa, visibile a destra, si affacci sull'incrocio di due strade, agli angoli delle quali vi sono le fontane da cui l'edificio religioso prende il proprio nome. Essendo entrambe le strade importanti, Borromini scelse di far affacciare il campanile sulla strada su cui non vi è la facciata principale, in modo da non ignorarla ma anzi renderla protagonista di quel raffinatissimo movimento architettonico che connota l'esterno. All'interno, invece, diede vita tra il 1638 e il 1641 ad un capolavoro di eleganza e perfezione tale da rendere San Carlino la sua chiesa - l'opera per cui è ricordato maggiormente - oltre che quella dedicata a San Carlo Borromeo, una figura per la quale l'ammirazione dell'architetto fu tale al punto da cambiare definitivamente il suo cognome in Borromini, invece di Castelli, come atto di devozione. Commissionato dall'Ordine spagnolo dei Trinitari scalzi, dedito all'assoluta povertà, l'architetto lavorò senza compenso, ulteriore testimonianza del culto per il grande santo lombardo e dell'amore per la propria passione per l'architettura, come sottolinea il Baldinucci: «Non fu punto signoreggiato dal desiderio di roba, il quale tenne per soggetto a quello della gloria; onde per lo più delli suoi disegni, modelli e assistenze, se non fossero stati Pontefici, non voleva pigliar danaro, affine, com'ei dicea, di poter operare a modo suo; anzi dagli stessi Pontefici prese solo quello che gli fu dato, senza domandar cosa alcuna».
La pianta di San Carlino è un'ellissi derivante da una profonda riflessione geometrica scaturita dai numerosi disegni dell'architetto - tra cui quello in figura - nei quali è implicito anche il messaggio teologico, facendoci capire come il ticinese lavorasse al disegno nello stesso modo in cui Michelangelo lavorava alle scultore, ovvero liberando dal marmo tutto ciò che risultava superfluo rispetto a quell'idea di perfezione che l'artista aveva nella sua mente. Un'ulteriore analogia che lega il Borromini al Buonarroti si riscontra nel rapporto privato e passionale che avevano per le loro arti, arrivando il primo a bruciare i propri disegni, mentre l'anziano Michelangelo si era accanito sulle proprie statue colpendole con lo scalpello. 
In San Carlino l'architetto cominciò a progettare la pianta accostando due triangoli equilateri delle stesse dimensioni, allusione alla trinità, in modo che avessero un lato in comune, formando dunque un rombo. Partendo dal centro di entrambi i triangoli tracciò poi due cerchi che a loro volta formano le curve esterne di un'ellisse. Le cappelle a destra e a sinistra rispetto l'entrata sono segmenti di ovali che, se si completassero, si intersecherebbero al centro dell'edificio. Sorprendente è l'armoniosa concezione di quella che è una delle composizioni spaziali più geniali del secolo.

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L'organismo architettonico si sviluppa unitario e coerente dalla base lungo le pareti, ritmate da colonne, sino alla cupola, connotata dal candore del bianco, idoneo nel restituire una sensazione di ariosità di spazi. Illuminata dalla luce che entra dal lanternino, dove si scorge un triangolo con raffigurata la colomba dello Spirito Santo, la cupola sembra rimpicciolirsi sino al lanternino grazie ad un'illusione prospettica che la rende più alta e profonda di quanto non sia effettivamente, in un alternarsi di forme a croci ed ottagoni, scavati sulla superficie, sui quali vibra la luce che irradia lo spazio. Quando si è soliti pensare allo stile barocco come ricerca di forme bizzarre e modi elaborati si nota qui, invece, come l'architetto - pur realizzando una complessa struttura - sia stato in grado di semplificare il linguaggio rendendolo facilmente comprensibile, lineare e puro, in quello che è forse il più grande dei doni, vale a dire far apparire semplice qualcosa che è invece estremamente articolato, sinonimo della genialità borrominiana.
Trent'anni più tardi, a partire dal 1664, Borromini si dedicò alla facciata della chiesa, ormai giunto all'epilogo della sua carriera, riprendendo lo stile interno e tenendo conto dell'ambiente urbano circostante. Connotata da due registri e da un movimento ondulato unico nel suo genere, la facciata presenta nel primo ordine un moto concavo-convesso-concavo con quattro colonne corinzie che reggono una solenne trabeazione, sotto alla cui scritta si vedono tre nicchie che custodiscono delle statue. Quella al centro mostra San Carlo Borromeo in preghiera e fu commissionata nel 1675 allo scultore Antonio Raggi. Il santo è inserito in un particolare baldacchino formato dalle ali dei due cherubini posti al suo fianco, esempio di utilizzo di un elemento naturale per conferire un senso di verticalità. Le colonne della facciata non sono tutte dritte, bensì lievemente girate nel punto in cui la superficie cambia orientamento da concavo a convesso. Si parla in questo caso di forme classiche in movimento, poiché l'architetto utilizza elementi classicheggianti come le colonne per connotare di dinamicità l'opera. La parte superiore della facciata è invece concava, ma con una sorta di garitta o edicola convessa dietro un balcone. Altre quattro colonne di uguale altezza conducono lo sguardo sino ad un'ulteriore trabeazione, ancora più grande, al cui centro vi è un ampio medaglione di forma ovale che doveva ospitare un affresco di San Carlo in gloria.

Ancora impegnato in San Carlo, Borromini fu scelto per una nuova importante committenza, ovvero l'Oratorio di San Filippo Neri, che doveva sorgere sul lato occidentale della chiesa di quell'ordine, Santa Maria in Vallicella. L'architetto fu incaricato di concepire un'imponente sala destinata all'esecuzione di musica sacra - luogo di pura armonia che unisce l'arte della musica all'architettura - e di realizzare una facciata che, anche in questo caso, doveva tener presente dell'ambiente urbano, in particolare della facciata della chiesa adiacente. Borromini scelse di utilizzare un materiale come il mattone, alquanto semplice, come emblema della povertà dell'ordine dei frati e per contrasto rispetto alla chiesa, influenzando per materiali e soluzione planimetrica il barocco piemontese, basti pensare a Guarino Guarini. La novità più interessante risulta essere infatti la forma della facciata, pensata per accogliere i pellegrini grazie alla metafora dell'abbraccio, una soluzione che adotterà lo stesso Bernini per il colonnato di Piazza San Pietro e di cui Borromini scrive: «e nel dar forma a detta facciata mi figurai il Corpo Umano con le braccia aperte, come che abbracci ogn'uno, che entri; qual corpo con le braccia aperte si distingue in cinque parti, cioè il petto in mezzo, e le braccia ciascheduno in due pezzi, dove si snodano».

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L'oratorio dei filippini e la Chiesa di Santa Maria in Vallicella, oggi Chiesa Nuova, in un'incisione di Giovanni Battista Falda.

Nello stesso periodo, Bernini attraversava in San Pietro uno dei suoi periodi lavorativi più critici, andando incontro ad un clamoroso fallimento nei progetti di innalzamento delle torri campanarie per la basilica, che sarebbero dovute essere collocate, per volere del suo protettore Urbano VIII, sopra le due estremità della facciata del Maderno. I campanili, a causa della loro mole e dei problemi di staticità che generarono crepe vistose, non furono mai realizzate e la torre di sinistra, l'unica ad essere innalzata quasi interamente, fu abbattuta sotto il pontificato del successore di Urbano, Innocenzo X Pamphilij.
Per il Bernini la scomparsa di papa Urbano fu un ulteriore duro colpo per la sua carriera, in quanto il severo Innocenzo gli preferì Borromini e artisti maggiormente classicisti come lo scultore Alessandro Algardi. A tormentare il genio berniniano, amante della vita e delle donne, erano anche passioni sentimentali, in particolare quella tempestosa con Costanza Bonarelli, mentre Borromini era noto a Roma per la sua castità e il suo essere uno scapolo malinconico - al punto che la sua biografia non conosce figure femminili - in un'esistenza dedita esclusivamente alla propria vocazione per l'architettura e alla ricerca spirituale, come lo descrive il nipote in una biografia che influenzerà tutte le successive, compresa quella di Baldinucci: «nel vivere era parchissimo [...] si vede che fusse huomo casto disinteressato - non stimò mai in alcun tempo il denaro e dalli padroni delle fabriche non volse mai cosa alcuna per poter con maggior libertà operare a modo suo / da Innocenzo X si prese quello che li diede / Si crede che fusse huomo casto».
Sotto il pontificato di Innocenzo X, in occasione del giubileo indetto per l'anno 1650, Borromini ottenne la propria personale rivincita attraverso l'incarico del restauro della Basilica di San Giovanni in Laterano, il cui compito di intervenire sull'antica cattedrale romana si trasformò in una vera e propria fabbrica simile a quella di San Pietro, sicuramente per importanza, in quanto, ricorda Stendhal nelle sublimi pagine delle Passeggiate romane: «San Giovanni in Laterano è la prima chiesa del mondo: Ecclesiarum urbis et orbis mater et caput; è la sede del sovrano pontefice come vescovo di Roma. Il papa, dopo la sua esaltazione, viene a prenderne possesso.
Fu nel 324 che Costantino eresse questa basilica nel proprio palazzo, che in seguito cedette ai sovrani pontefici».
Borromini vivrà gli anni dei lavori lateranensi sul piano della tragedia personale, in modo simile a quanto sperimentato da Michelangelo per la tomba di Giulio II. Il motivo si deve alla committenza papale, di carattere puramente conservativa, nonché all'esigenze dell'imminente giubileo, avendo l'architetto ottenuto la sovrintendenza nella primavera del 1646. L'idea del pontefice era infatti quella - al contrario della fabbrica petrina - di non rivoluzionare la basilica e di non ricostruirla, mantenendo il legame col passato, compiendo dunque un'operazione di carattere pratico, consolidando e aggiornando l'antica struttura. Tra le grandi ricostruzioni di San Pietro e del Laterano erano infatti cambiati i tempi e da un Rinascimento carico di speranze e di coraggio, intriso di fiducia nelle capacità umane, si era arrivati ad un Seicento precario e di inquietudini, segnato dalla Controriforma, che per ragioni religiose optava per la conservazione degli antichi luoghi di culto. Borromini riuscì comunque a trasformare l'impianto in moderno e barocco - geniale inventore di spazi quale era - lavorando in particolare alla lunga navata centrale, separandola nettamente, rispetto a quella paleocristiana, dalle due laterali. Per farlo innalzò delle ampie arcate, sopra le quali pose delle finestre, servendosi dell'elemento naturale della luce come spettacolo per illuminare l'interno nelle varie fasi del giorno. A separare a loro volta le arcate, poste tra alti pilastri di marmo bianco, si notano dodici nicchie che distraggono il cammino del pellegrino verso l'altare e il ciborio, in un percorso esperienziale tipicamente barocco, che rallenta volutamente il percorso dello spettatore. Soffermandosi al centro della navata ci si trova in una sorta di Gerusalemme celeste, le cui nicchie - che custodiscono le statue degli Apostoli realizzate a seguito degli interventi borrominiani nel diciottesimo secolo - alludevano alle dodici porte dell'Apocalisse, a loro volta simbolo delle dodici tribù di Israele.
La delusione maggiore per Borromini fu probabilmente il soffitto, che avrebbe voluto a volta con costoloni diagonali, tuttavia Innocenzo non si decise ad eliminare il soffitto ligneo cinquecentesco di Daniele da Volterra commissionato da Pio IV. Se la facciata interna, con i simboli araldici pontifici e una finestra che illumina l'intera navata, risulta essere un capolavoro curato nei dettagli nonostante le notevoli dimensioni, la facciata esterna rimase invece incompleta all'epoca di Borromini e i lavori si protrassero sino al XVIII secolo, quando fu realizzata, per volere di papa Clemente XII, dall'architetto Alessandro Galilei.

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La navata centrale della basilica in un dipinto di Giovanni Paolo Pannini.

Tornando all'epoca dei lavori per l'Oratorio dei filippini, ancora sotto il pontificato di Urbano VIII e nel pieno dei cantieri berniniani per San Pietro, Borromini era stato scelto dal pontefice - probabilmente proprio su consiglio del Bernini - per la piccola Chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza, l'edificio religioso dell'Archiginnasio - in seguito Università - di Roma, che diverrà l'opera per cui sarà celebrato in tutta la città, il suo capolavoro. Il difficile progetto, a cui lavorò quasi vent'anni, rappresenta l'ennesima commissione per cui escogitare un'ardita soluzione, tenendo conto degli spazi ridotti e di quanto già costruito all'inizio del secolo da Giacomo Della Porta. Sant'Ivo verrà costruita così sotto tre pontificati, a partire, nel 1643, da quello di Urbano VIII, per arrivare sino al 1660, quando fu inaugurata da Alessandro VII Chigi, passando per Innocenzo X, il papa borrominiano. I progetti non saranno privi di tormento, come tipico delle opere dell'architetto, qui consapevole di lavorare per una chiesa pubblica che celebrava la mente e lo spirito. Per tale motivo, impegnato per la Sapienza, luogo di cultura e di riflessione, Borromini concepì una summa di simbolismo, intrisa di significati e misteri ancora irrisolti. La chiesa, poco distante dal Pantheon, è racchiusa tra le mura del palazzo della Sapienza, posta al culmine del cortile rinascimentale realizzato dal Della Porta, il cui lato corto, connotato da un'esedra in cui culmina il porticato, funge da facciata dell'edificio religioso, in un movimento semicircolare che serve ad accogliere i visitatori. La chiesa, con la sua guglia che rievoca il Duomo di Milano, svetta nel cielo di Roma, raggiante sull'ombra del cortile, rivelandosi un miracolo per il suo apparire colossale nonostante le piccole dimensioni.

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A livello planimetrico Borromini riprende l'idea di due triangoli equilateri, come in San Carlino, questa volta intersecandoli per formare una stella di David, alternando un dinamico gioco di forme circolari ai vertici della composizione per arrotondare l'impianto centrico e smussare i triangoli. Le scelte simboliche sono evidenti, con i triangoli che alludono alla Trinità e, nella loro unione a formare la stella di David, alla connessione tra cielo e terra, tra Dio e l'uomo, oltre che farsi figura ed emblema di "sapienza", di cultura e della nobiltà del sapere.
L'ingegnosità della pianta stellare comincia dal pavimento per arrivare sino alla cupola, attraverso le pareti, proprio come in San Carlo, in un movimento ascensionale che giunge al punto più alto e luminoso della cupola, la quale, illuminata dalla luce naturale e dall'uso consueto del bianco, appare sempre più piccola. Nella forma a dell'interno della cupola alcuni contemporanei del Borromini hanno voluto vedere un richiamo all'alveare e dunque all'ape, simbolo araldico dei Barberini, tuttavia nella decorazione non si trovano riferimenti al pontificato di Urbano VIII, bensì a quello di Alessandro VII, come si può notare nei monti stellati e nelle fronde di quercia che si trovano nello stemma del pontefice della famiglia Chigi.
La decorazione della chiesa è scarsa, sia per la semplicità delle piccole cappelle laterali che per la mancanza di splendidi affreschi - minimale dunque se paragonata agli altri interni barocchi - testimonianza di come Borromini concepì uno stile barocco più formale, omogeneo ed elegante, ma non per questo privo di dinamismo e soluzioni complesse. In tal senso quella che più sorprende è certamente la guglia barocca, telescopica nel suo protrarsi verso il cielo - novella torre di Babele - in un'ascesa verso Dio e verso la conoscenza, ispirazione per tutti gli studenti dell'università e per ogni visitatore.

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Gli ultimi anni riservarono a Borromini profonde amarezze personali e delusioni legate alla committenza, andando incontro ad un declino e a un volontario isolamento che coincise con la nuova ascesa artistica del Bernini, il quale riuscì ad emergere nonostante le difficoltà legate al pontificato di Innocenzo X attraverso opere minori che oggi annoveriamo come autentici capolavori, basti pensare all'Estasi di Santa Teresa, per poi tornare assoluto protagonista sotto Alessandro VII. Per Borromini la sintesi di questi ultimi anni e della sua intera vita risiede in uno dei luoghi divenuti simbolo di Roma e dell'arte barocca, ovvero Piazza Navona, dove si cimentò in un altro cantiere alquanto complicato come quello per la Chiesa di Sant'Agnese in Agone, che nelle intenzioni di papa Innocenzo sarebbe dovuta essere il mausoleo dei membri della famiglia Pamphilij, definita da Stendhal come "Una delle chiese più belle di Roma", la cui facciata è "una delle migliori del Borromini". Subentrato nella direzione a Girolamo Rainaldi, Borromini ne modifica i progetti e procede rapidamente, sino a riuscire ad ultimare quasi l'intera facciata in pochi anni, tuttavia la morte del pontefice segnò una battuta d'arresto per il cantiere, per il quale gli eredi mostrarono un certo disinteresse. A causa della scarsa sintonia con Borromini, la guida della fabbrica passò a Carlo Rainaldi, figlio del primo architetto e già impegnato nel primordiale cantiere, ma sicuramente l'impronta borrominiana rimase decisiva e ben radicata, in particolare nelle due leggere torre campanarie che svettano sulla facciata, una personale rivincita sul fallimento del Bernini in San Pietro. I campanili non solo si integrano perfettamente con la grandiosa cupola, ma riescono anche a donare un senso di profondità, insieme alla cupola e alla facciata concava il cui movimento è partecipe del contesto urbano e della piazza, celebre per la sua forma allungata connotata da una scarsa larghezza.

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Piazza Navona - che qui vediamo in un bellissimo dipinto di Caspar van Wittel - fu quindi un luogo dove il dissidio dell'animo del Borromini si espresse maggiormente, crucciato nel non poter lavorare serenamente in uno dei luoghi più importanti di Roma barocca, ricordando che qualche anno prima, ancora regnante Innocenzo X, Bernini aveva avuto la meglio per realizzare la fontana al centro della piazza, concependo un modello di cui, effettivamente, il pontefice non poteva non riconoscere l'infinita bellezza, sebbene la predilezione per il ticinese. La rivalità dei due geniali architetti rimane così impressa nel cuore della Roma seicentesca e in uno dei palcoscenici barocchi più noti, all'ombra della facciata di Sant'Agnese, cui si guarda attraverso le giganti statue berniniane e il sontuoso obelisco che ornano la Fontana dei Quattro Fiumi. Le date smentiscono la leggenda secondo cui la statua raffigurante il Rio de la Plata si copri il viso con il gesto della mano alla vista della chiesa borrominiana, tuttavia la storia dell'arte lascia adito anche a questi suggestivi aneddoti volti a spiegare una delle tante rivalità che resero Roma la città più bella del mondo.
Nell'estate del 1667, Borromini, deluso a livello professionale e tormentato da una ricerca spirituale che accese le sue opere quanto logorò la sua esistenza, si ammalò e fu costretto a letto in preda alla febbre e all'insonnia. Nel comporre il suo testamento chiese come ultimo desiderio di essere seppellito accanto al Maderno, nella Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, un segno di riconoscenza verso colui che lo aveva guidato a livello architettonico negli esordi romani.
Incapace di prendere sonno, cercò di porre fine alla propria vita trafiggendosi con la spada, rimanendo un giorno intero sospeso tra la vita e la morte, trovando anche la lucidità per raccontare nelle sue memorie il drammatico e fatale episodio. Morì, scrive il Baldinucci, «di sovrabbondanza di sangue stravenato». Fu una fine tragica, come si addice agli artisti, eppure Borromini fu un architetto veramente puro nel senso assoluto del termine, dedito con costanza alla ricerca dell'armonia, formale come spirituale. Con uno sguardo rivolto al passato, ma anche consapevole di lavorare per il futuro, Borromini visse un secolo in cui il classicismo era ormai superato, nel quale si tendeva a rompere con la tradizione, sperimentando soluzioni nuove e originali, in un periodo dunque di libertà precaria e illusoria che si manifestò nell'eccesso totalizzante barocco come nelle forme lineari dei suoi disegni. In questo anelito di apparente libertà si può sperimentare anche l'incognita dell'incertezza e il presagio di morte che alberga inesorabile nell'esistenza. Le opere borrominiane ci fanno capire in tal senso come la libertà più autentica nasca dal rigore e di come solamente attraverso l'ordine è possibile trasformare qualcosa di interiore in bellezza. Per porre fine a questa armonia basta un attimo di nera follia, come fu il suo suicidio, ma quello che rimane oggi del Borromini resiste alla caducità del tempo e trova la salvezza nelle sue creazione e nella sua totale dedizione all'architettura, a cui si accostò sempre, spiega bene Baldinucci, con quella rigorosa nobiltà che è virtù di un'anima grande: «In somma fu il Cavalier Borromino uomo degno di gran lode; ed a lui dee molto la bell'arte dell'Architettura, come a quegli, che non solo se ne valse con vario e bello stile in egregie fabbriche, dentro e fuori della nobilissima città di Roma, ma eziandio la esercitò quanti altri mai con nobiltà e decoro».

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Bibliografia

  • Borromini - Stefano Borsi - Giunti
  • Borromini - Giulio Carlo Argan - Mondadori
  • Borromini. La vita e le opere - Paolo Portoghesi - Skira
  • Arte in primo piano. Manierismo, Barocco, Rococò - Giuseppe Nifosì - Editori Laterza
  • Disegno e analisi grafica - Mario Docci - Editori Laterza
  • Geni rivali. Bernini, Borromini e la creazione di Roma barocca - Jake Morrisey - Editori Laterza
  • Roma barocca - Gerhard Wiedmann - Jaca Book
  • Il barocco. Urbanistica e architettura - Aurora León - Fenice 2000
  • Storia dell'architettura occidentale - David Watkin - Zanichelli
  • Storia dell'architettura europea - Nikolaus Pevsner - Editori Laterza
  • La curva e il diritto. La linearità del potere, l'eversione barocca - Alberto Predieri - il Saggiatore
  • Passeggiate romane - Stendhal (traduzione e note di Donata Feroldi) - Feltrinelli
  • I promessi sposi - Alessandro Manzoni (con le illustrazioni originali di Francesco Gonin) - Mondadori