François Rabelais

Nel corso del Rinascimento furono ripresi, in ambito letterario, i principi dell'Umanesimo, che consistevano nel gusto per l'antico e l'amore verso i classici, tuttavia si diffuse anche una tendenza opposta nota come anticlassicismo, nella quale diversi intellettuali proposero alcune soluzioni alternative alle consuetudini e ai modelli della cultura ufficiale. Il comico, per esempio, trovò notevole diffusione come forma di ribellione per chi considerava l'arte troppo selettiva e aristocratica, proponendo una visione "dal basso" delle cose, anziché idealizzate e sublimi, riuscendo a dare voce alle classi meno agiate e, spesso, a rovesciare i valori del pensiero dominante, mettendolo in discussione.
Sebbene i modelli di riferimento per ogni letterato continuassero ad essere Matteo Maria Boiardo, Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, i cui poemi erano ancora le opere di maggiore successo nell'ambiente cortigiano, bisogna sottolineare come la cultura popolare conobbe un notevole sviluppo nella tradizione carnevalesca, intesa non come protesta sociale e politica, ma di polemica interna al genere letterario alto e sublime a cui si era abituati.
Se i modelli di riferimento principali del Cinquecento erano Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, come stabilito dalle regole del cardinale Pietro Bembo esposte nelle Prose della volgar lingua del 1525, nella poetica anticlassicista divennero la tradizione comica e la cultura popolare, con la loro disarmonia e il loro eccesso, i punti di riferimento, attingendo al linguaggio volgare e irriverente piuttosto che al latino con cui il Petrarca credeva di meritarsi l'immortalità presso i posteri.
In ambito teatrale, dove i modelli erano attinti dal mondo classico e le regole dalla Poetica di Aristotele, notevole diffusione trovò, anche nel contesto della corte, il genere della commedia, si pensi al Ruzante, capace di dare voce ai ceti meno abbienti e a quel mondo dei "vinti" che cominciò ad essere rappresentato proprio nel Rinascimento per continuare con Alessandro Manzoni, Giovanni Verga, sino ad arrivare agli autori del Novecento.
Lo stesso avvenne nel linguaggio pittorico, dove pian piano alla perfetta armonia di Raffaello Sanzio, il cui esempio viveva ancora nel Manierismo, fu sostituita un'attenzione alla realtà quotidiana e alle figure più umili, basti ricordare la rivoluzione artistica di Caravaggio, che ritrasse ragazzi di bottega e prostitute, oppure alcuni dipinti di Annibale Carracci.

Il mangiafagioli - Annibale Carracci - 1580 circa - Roma, Galleria Colonna

Si capisce subito come la poetica anticlassicista, le cui scelte divergenti corrispondono a un preciso intento, presupponga un'educazione letteraria particolarmente raffinata, che partendo da una consapevolezza del passato sia capace di rovesciarlo mettendone in ridicolo le tematiche. Un esempio sono le ricercate provocazioni di Pietro Aretino, sempre alla ricerca dello scandalo come elemento finalizzato alla promozione dell'opera, aspetto estremamente moderno, piuttosto che alla sovversione delle istituzioni sociali.
L'anticlassicismo si esprime dunque come parodia dei generi letterari maggiormente diffusi, dalla poesia lirica passando per il teatro, sino allo svuotamento di senso del modello epico cavalleresco, considerato il genere per eccellenza in cui il poeta, attraverso la narrazione delle gesta di un eroe, diveniva interprete di un'intera popolazione, celebrando con entusiasmo il signore e la dinastia presso cui era ospite a corte.
Al di fuori di ogni schema tradizionale, aprendo la strada al romanzo moderno, si trova l'opera del francese François Rabelais, il quale ebbe il merito, grazie al suo Gargantua e Pantagruel, di innalzare lo spirito della letteratura carnevalesca e della saggezza popolare.
Rabelais, scrittore e umanista nato intorno al 1494 da un avvocato di agiate condizioni economiche, fu uno dei maggiori rappresentanti dell'anticlassicismo, imponendosi nel tempo, sebbene la sua figura sia poco nota, come modello imprescindibile per lo stile ironico e per la ricchezza verbale capaci di renderlo un Voltaire del XVI secolo, collocato appena dietro a William Shakespeare per importanza storica.
La portata rivoluzionaria del proprio stile, che rende l'opera apprezzabile appieno solamente oggi, risulta attuale in ogni epoca per quel suo essere universale e per quella libertà espressiva che fanno di quest'enciclopedia della cultura popolare il capolavoro unico di un autore che Honoré de Balzac definì «il più grande spirito dell'età moderna», mentre Victor Hugo lo annoverava addirittura fra i geni dell'umanità.
Notizie certe riguardo la biografia di Rabelais provengono solamente a partire dal 1521, quando decise di divenire frate francescano per poi, negli anni appena successivi, chiedere di passare tra i benedettini, cercando un ambiente più tollerante. Abbandonata la strada religiosa, girò fra le varie città universitarie di Francia per giungere infine alla Sorbona di Parigi.
Raffinato intellettuale dai poliedrici interessi, Rabelais fu apprezzato non solo in ambito umanistico, ma anche per le sue conoscenze mediche, pubblicando a Lione alcune opere di carattere scientifico. Nominato medico, esercitò la professione presso un ospedale cittadino, mentre cominciava anche a dedicarsi alla stesura del primo libro della sua opera più celebre, il Pantagruele, grazie al cui successo seguì poco dopo il Gargantua, che narra le gesta del gigante padre di Pantagruele. Il notevole gradimento dell'opera da parte del pubblico non bastò, tuttavia, ad evitare che il libro finisse sotto la censura dei dotti della Sorbona, che condannarono anche il suo autore.

Rabelais in un disegno di Eugène Delacroix.

Gargantua e Pantagruele

La saggezza del riso e della cultura popolare

Il Gargantua e Pantagruele di Rabelais è un romanzo unico nel suo genere che permette ai lettori di capire l'evoluzione millenaria della cultura comica popolare, che nel Medioevo e nel Rinascimento aveva un profondo significato contrapposto ai toni seri della Chiesa e delle istituzioni.
La storia ha per protagonisti due principi di proporzioni smisurate, padre e figlio, dei quali Rabelais narra le vicende con un francese antico e raffinato, attraverso una scrittura di seducente bellezza e dall'umorismo estremo, nella quale si intrecciano lingua colta e colloquiale, livello aulico e quel "basso materiale e corporeo" che è uno dei temi centrali e più significativi del libro.
Attraverso numerosi riferimenti alla Francia e alla realtà del suo tempo, celando sovente allusioni politiche, nonché leggi morali e religiose, lo scrittore mette in scena, come in un'immensa rappresentazione teatrale, le grandi abbuffate e le indigestioni, i corpi umani nei loro elementi più bassi e nel loro smembramento in molteplici parti autonome, il tutto poiché ben consapevole che è di questo che ride il popolo, facendosi così portavoce della saggezza dei buffoni e dei lori proverbi, degli stolti e di chi non poteva esprimersi: in sintesi, del ridere popolare e carnevalesco.

Lettori amici, voi che m'accostate,
liberatevi d'ogni passione,
e, leggendo, non vi scandalizzate:
qui non si trova male né infezione.
È pur vero che poca perfezione
apprenderete, se non sia per ridere:
altra cosa non può il mio cuore esprimere
vedendo il lutto che da voi promana:
meglio è di risa che di pianti scrivere,
ché rider soprattutto è cosa umana.

La massima espressione della cultura popolare era il carnevale, inteso come quel periodo di rinascita del mondo intero, dove il palcoscenico teatrale diviene la piazza, unico luogo nel quale la realtà si può esprimere alla rovescia e in cui è la vita stessa a recitare. Il divario fra attori e spettatori viene completamente superato, così come sono aboliti temporaneamente tutti i rapporti gerarchici, colmando le distanze sociali e politiche che allontanano le persone. Durante il carnevale si è tutti sullo stesso piano, proprio in quanto ognuno di noi ha il suo corpo con le sue bassezze e comicità, elementi che conferiscono un carattere universale all'opera. Un tema come questo, che sottolinea come dagli elementi più bassi e concreti si possa davvero esprimere tutto nel modo più autentico, sembra essere stato ripreso pochi anni più tardi dell'opera di Rabelais da Michelangelo Buonarroti nel suo maestoso e spaventoso Giudizio finale della Cappella Sistina, anch'esso condannato dalla critica e censurato per la nudità, nel quale il corpo umano diviene vera e propria celebrazione del creato e allo stesso tempo l'anatomia la vera espressione dell'intera esistenza del beato o del reprobo, portatrice di ogni ambizione o delusione, della propria gioia o del male di vivere.
Insieme al mangiare e al bere nel clima festoso e scanzonato dei banchetti, le immagini ricorrenti di questa vita materiale e corporea di cui racconta Rabelais sono la fertilità e la nascita, la crescita smisurata e l'abbondanza. Tipiche sono infine le scene del parto e dell'accoppiamento, dello smembramento del corpo e della vecchiaia, che essendo il destino di ogni individuo suscita il sorriso di chi ancora è lontano dal tramonto della propria esistenza. L'immagine grottesca e contraddittoria, a tratti inquietante, della vecchia incinta che ride diviene emblema del vecchio che lascia spazio al nuovo, di qualcosa che muore generando la vita. L'abbassamento verso il realismo grottesco di tutto quello che è alto e spirituale coincide con un avvicinamento alla terra, al basso appunto, che però è metafora del ritorno a ciò che dà la vita. Abbassando, infatti, si seppellisce e contemporaneamente si semina, si muore per rinascere in abbondanza, in un ciclo vitale che è elemento positivo.

Un dipinto del 1640 raffigurante Sileno ubriaco del pittore barocco Rubens, il quale amava molto temi fantasiosi come fauni, satiri e vecchi Sileni ebbri di vino e di piacere.

Tutte queste forme di comicità e di immagini, così lontane da qualsiasi estetica classica, hanno reso Rabelais un autore solitario e non assimilabile a nessun altro, tuttavia esse presentano una lunga tradizione, se si pensa che l'arte ha sempre fatto posto alla rappresentazione del brutto e del deforme, nonostante sin dai greci si fossero stabiliti precisi canoni di bellezza per la rappresentazione del corpo in tutta la sua perfezione di proporzioni. Anche nella letteratura, a cominciare da Omero, passando per il teatro greco, troviamo molti personaggi grotteschi che affiancano gli eroi, proprio al fine di esaltarne, per contrasto, le qualità. L'abbassamento al ridicolo e a quanto ci provoca inquietudine è infatti l'elemento che permette di essere gratificati delle virtù di cui si fanno portatrici le figure virtuose del racconto o di credere nelle parti più alte di un'opera, basti pensare al modello della Divina Commedia di Dante, della quale crediamo alle pagine sublimi del Paradiso proprio perché abbiamo conosciuto le tenebre ed il "basso" dell'Inferno.

Nel romanzo di Rabelais il linguaggio, connotato da un vocabolario ricercato e pronto a variare i toni a seconda del variare delle parti, si serve con frequenza delle imprecazioni o degli spergiuri alla divinità, espressioni anch'esse ricorrenti sin dai culti più antichi. Si tratta di un abbassamento della parola, affine alle immagini, che è tipico del linguaggio di piazza e che suscita il riso proprio nel momento in cui le norme verbali le avevano censurate ed eliminate.

Il riso, nella visione di Rabelais, ha la stessa importanza della serietà, anzi è la via per accedere agli aspetti più profondi del reale, in quanto attraverso il riso ci riconosciamo universalmente uguali nei nostri difetti, inoltre il riso ha il privilegio di mettere a nudo la nostra interiorità, di farci conoscere per quelli che siamo veramente.
Nel suo capolavoro Rabelais sviluppa una vera e propria teoria sul riso, incentrando l'attenzione su Ippocrate, intellettuale dell'antica Grecia considerato il padre della medicina con il suo Corpus Hippocraticum. In vari trattati medici a lui attribuiti, fu il primo a riconoscere il potere curativo del ridere e il suo valore al fine di reagire alla malattia. Più avanti Aristotele individuerà nel riso un privilegio insito negli uomini, vero e proprio dono del cielo che ci rende diversi dagli altri esseri viventi, come scrive Rabelais a conclusione dell'incipit del suo romanzo: «meglio è di risa che di pianti scrivere, ché rider soprattutto è cosa umana». La Chiesa, invece, condannerà il riso nella propria dottrina ed il cristianesimo, sin dalle origini, predicherà l'assoluta serietà fino a quando la figura di San Francesco si imporrà con la sua regola rivoluzionaria. Una spiegazione a questa visione, nonostante la gioia del messaggio religioso di Gesù, è da ricercare nel legame che vi è sempre stato fra la risata e il regno degli inferi, si pensi alla maschera di Arlecchino, che ha un'origine demoniaca, oppure alla credenza nel ritorno dei morti in occasione del carnevale, un momento in cui il riso diviene fonte di liberazione dalle paure più recondite.
Se nel Medioevo il riso era relegato ai margini delle rigide forme ufficiali di vita civile e bandito dal cristianesimo, bisogna però sottolineare come fossero autorizzati alcuni momenti comici paralleli a quelli di culto, dunque all'interno del contesto religioso, come le "feste dei folli", celebrate da studenti e chierici nel giorno di Santo Stefano, a Capodanno, per l'Epifania e nel giorno di San Giovanni. Inizialmente celebrate nelle chiese stesse, ma divenute illegali a conclusione del Medioevo, queste feste erano tipiche del contesto francese ed erano incentrate sul travestimento parodico del culto ufficiale, accompagnato da abbassamenti grotteschi quali la ghiottoneria, l'ebrezza e gesti osceni come il denudamento dei corpi.
Un'altra espressione di festa attinente, per quanto opposta, al momento solenne del rito ecclesiastico, era la "festa dell'asino", che ricordava la fuga in Egitto della Sacra Famiglia ponendo al centro la figura dell'asino, emblema sin dall'antichità di docilità e soprattutto del basso materiale e corporeo, come L'asino d'oro di Apuleio.

Banchetto degli dei (particolare della Sala di Amore e Psiche) - Giulio Romano - 1530 circa - Mantova, Palazzo Te

Da ricordare sono anche le feste di San Martino e San Michele, in autunno, dal tono bacchico perché i due santi erano i patroni dei vigneti. L'atmosfera della vendemmia è particolarmente centrale nella seconda parte del Gargantua, così come nell'intero romanzo, in quanto l'ebrezza ed il banchetto, così come tutte le immagini di convivialità, sono emblema del ridere e dell'universalità.
Infine, a Marsiglia, si celebrava nel giorno di San Lazzaro una grande festa legata ovviamente al motivo della morte e della resurrezione. Una moltitudine di animali sfilava in processione per la città, accompagnata dall'intera popolazione, che danzava con maschere e costumi per esorcizzare la paura della morte e decretare la vittoria della vita.
Protagonista assoluto di queste feste e del ridere medievale era il buffone, portavoce della gioia e dell'allegria, il quale spesso veniva proclamato re per burla, nell'idea di rovesciamento gerarchico che mescolava alto e basso ponendo tutti sullo stesso piano. Venivano così eletti dei sovrani per burla, delle figure ecclesiastiche e persino un papa per burla, in un'interruzione temporanea dell'intero sistema ufficiale.
Il riso, capiamo attraverso la lettura dell'opera di Rabelais, è dunque veramente liberazione dalla censura esteriore e interiore, ed è l'arma della libertà nelle mani del popolo; la serietà, nel Medioevo e sino ai nostri giorni, è al contrario simbolo di debolezza e ipocrisia. "Tutto nel mondo è burla. L'uom è nato burlone", citando un altro "gigantesco" personaggio comico, il Falstaff, protagonista dell'ultima opera portata in scena da Giuseppe Verdi, il quale ci ricorda ancora una volta come, forse, il vero significato della nostra esistenza risieda nella gioia, in una sincera e spontanea risata.
Questo è lo spirito con cui accostarsi ad un romanzo unico come il Gargantua e Pantagruel, a questi giganti che ci invitano al loro convivio festoso e ai loro infiniti banchetti, godendo del momento e della vita nella sua forma più autentica, quella universale.

Capitolo quinto

Discorso dei bevitori

Quindi vennero nell'idea di far merenda sul posto. Ed ecco viaggiar bottiglie, prosciutti trottare, boccali volare, bicchier tintinnare.
- Tira...
- Dài!
- Volta!
- Mischia un po' qui!

- No, a me senz'acqua: così va bene, carissimo!
- Fischiami via 'sto bicchiere!
- Presentami un po' quel chiaretto. Ma pieno!
- Ah, basta con la sete!
- Ma questa falsa febbre non se ne andrà?
- Ma Santa Bernarda, comare, io non mi sento proprio in vena.
- Siete raffreddata, cara?
- Voglio vedere.
- Macché vedere! Parliamo di bere.
- Io bevo soltanto alle mie ore, come la mula del Papa.
- Io bevo soltanto nel mio breviario, come quel parroco.
- Che cosa è venuto prima, la sete o il bere?
- La sete, perché chi mai avrebbe bevuto senza sete ai tempi dell'innocenza? [...]
- Ma noi, poveri innocenti, beviamo anche troppo senza sete.
- Io, peccatore, mai senza sete: se non presente, almeno futura; prevenendola, si capisce. Bevo per la sete avvenire. Bevo eternamente! per me è un'eternità di bevute, e una bevuta d'eternità...

Bibliografia

  • L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale - Michail Bachtin - Einaudi
  • Gargantua e Pantagruel - François Rabelais (a cura di Mario Bonfantini) - Einaudi
  • Il piacere dei testi. L'Umanesimo, il Rinascimento e l'età della Controriforma - Volume 2 - Paravia

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