Michelangelo poeta

La geniale creatività di Michelangelo Buonarroti non eccelse solamente nelle nobilissime arti della scultura e della pittura, ma anche nella poesia. Il fiorentino fu un poeta autentico, che dedicò gran parte della sua straordinaria esistenza e delle sue energie nello scrivere, correggendo, riformulando, alla ricerca delle immagini più idonee nell’esprimere uno stato d’animo.

Il suo stile rappresenta un caso unico, se si pensa che in un secolo dominato dal petrarchismo, teorizzato da Pietro Bembo, egli guardò anche a Dante, in analogia con la propria produzione pittorica, come si vede nel Giudizio della Cappella Sistina.
Adattò «la lezione petrarchista a una concezione dell’amore radicata nel neoplatonismo fiorentino di fine Quattrocento» [1], facendo riferimento ai colti poeti che ebbe modo di conoscere durante la propria formazione giovanile presso l’ambiente squisito della corte di Lorenzo il Magnifico, tra cui Agnolo Poliziano, Luigi Pulci, lo stesso Lorenzo, ed il filosofo Marsilio Ficino, traduttore dal greco al latino del pensiero di Platone. Non mancano infine i legami con la poesia stilnovista di Guinizzelli e Cavalcanti.
La prima fase di produzione lirica denota per questo un carattere sperimentale volto al confronto con diversi generi e autori.
La lettura della Divina Commedia dantesca da parte di Michelangelo era affiancata dal commento di Cristoforo Landino, nel quale ogni verso del Poeta era interpretato su basi neoplatoniche. Questo elemento è di primaria importanza, sebbene non eccezionale dato che ogni artista italiano vissuto nel Cinquecento era influenzato dalle teorie neoplatoniche. Michelangelo fu però l’unico ad adottare il neoplatonismo nella sua totalità, giustificando su basi filosofiche la sua innata passione e il suo entusiasmo per la bellezza: «Michelangelo potrebbe definirsi l’unico platonico genuino tra i molti artisti che il neoplatonismo influenzò» [2].

Da sinistra Marsilio Ficino, Cristoforo Landino e Agnolo Poliziano nel dettaglio dell'affresco Annuncio dell'angelo a Zaccaria di Domenico Ghirlandaio custodito nella cappella Tornabuoni della basilica di Santa Maria Novella.

La riscoperta della filosofia platonica era avvenuta grazie all’Umanesimo, movimento intellettuale caratterizzato da un nuovo atteggiamento nei confronti dell’antichità, in grado di elaborare una visione diversa del mondo, nella quale l’uomo assunse una posizione privilegiata, facendosi artefice del proprio destino.

Platone, considerato il più affascinante filosofo della classicità, venne eletto a maestro di questo nascente pensiero, vicino allo spirito religioso del cristianesimo, capace di esprimere il rapporto fra Dio e il mondo e di toccare temi complessi quali l’anima e l’amore.

Nell’ambito della storia letteraria italiana cinquecentesca, quello del Buonarroti non fu l’unico caso di artista dedito alla scrittura, soprattutto nel contesto fiorentino, in cui emersero anche Leonardo da Vinci, Pontormo, Benvenuto Cellini, Bronzino e Giorgio Vasari.

Un passaggio fondamentale nel linguaggio poetico michelangiolesco si registrò a partire dagli anni Trenta, quando si trovava impegnato per cinque anni al Giudizio finale, cominciando un intenso scambio epistolare con Vittoria Colonna che contribuì ad innescare un processo di profonda rivisitazione della sua religiosità e dunque la tendenza ad uno stile più personale e riflessivo.

Scriveva nel 1555 in una lettera all’amico Vasari: «Messer Giorgio, io vi mando dua sonetti; e benché sien cosa sciocca, il fo perché veggiate dov’io tengo i mie pensieri» [3].

L’anima schiva e tenebrosa dell’artista si confida al lettore, ponendo l’attenzione alla sfera privata, dai dissidi religiosi ai desideri amorosi, con una sottile malinconia che diviene la cornice delle Rime, preziosissime anche per analizzare la sua magnifica produzione artistica.

È il caso del componimento, di cui ancora oggi si conserva l’originale, in cui egli stesso ci restituisce l’idea del suo modo di lavorare alla volta della Sistina, impresa che lo impegnò dal 1508 al 1512.

Sdraiato sulla schiena, con la barba intrisa dei colori sgocciolanti, Michelangelo compromette per sempre la vista e la salute fisica, in un vero e proprio corpo a corpo con la parete che ha dato vita ad uno dei massimi capolavori dell’universale storia delle arti.

I’ ho già fatto un gozzo in questo stento,
coma fa l’acqua a’ gatti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
c’a forza ’l ventre appicca sotto ’l mento.
  La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.

  E’ lombi entrati mi son nella peccia,
e fo del cul per contrapeso groppa,
e ’ passi senza gli occhi muovo invano.
  Dinanzi mi s’allunga la corteccia,
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.
      Però fallace e strano
surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.
      La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore [4].

Michelangelo divenne l’emblema della solitudine dell’artista e allo stesso tempo della grandezza creativa, di ciò che un uomo solo può creare, trovando nelle profondità di sé stesso la determinazione e il coraggio di proseguire, pur consapevole, come scrive nel finale, di non essere un pittore e di trovarsi in un luogo ostile, riferendosi al contesto romano e alla corte pontificia.

Aggiunse in una lettera al padre nell’inverno del 1509: «Io ancora sono ’n una fantasia grande, […] perché el lavoro mio non va innanzi in modo che a me ne paia meritare. E questa è la dificultà del lavoro, e ancora el non esser mia professione. E pur perdo il tempo mio sanza frutto. Idio m’aiuti» [5].

Il committente della volta fu papa Giulio II della Rovere, figura di mecenate determinante per la Roma che oggi possiamo contemplare in quanto si avvalse dell’arte come strumento che mostrasse il prestigio della Chiesa.
Dimostrando un’eccezionale predisposizione nella scelta dei suoi artisti, nell’estate del 1508 chiamò a Roma un ragazzo di appena venticinque anni, Raffaello Sanzio da Urbino, che si aggiunse nella cerchia pontificia al più anziano Michelangelo, già acclamato per aver innalzato il David, «la statua che afferma il canone moderno della bellezza maschile, ancora insuperato a cinquecento anni dalla sua creazione» [6], l’opera che «ha tolto il grido a tutte le statue moderne et antiche, o greche o latine che elle si fossero» [7], il simbolo eterno della città di Firenze.
Con il Buonarroti il pontefice instaurò un rapporto tumultuoso e romanzato, a cominciare dalla vicenda della propria tomba, che voleva collocare al centro della nuova basilica di San Pietro a cui stava lavorando Donato Bramante, ma che si concluse in quella che Michelangelo definì la “tragedia della sepoltura” [8].
Quando capì che papa Giulio aveva deciso di accantonare l’idea del suo mausoleo, il Buonarroti fuggì da Roma per fare ritorno a Firenze, confidando all’amico architetto Giuliano da Sangallo: «s’i’ stavo a Roma, penso che fussi fatta prima la sepultura mia che quella del Papa» [9].
Fu Bramante, afferma Ascanio Condivi, allievo e biografo di Michelangelo, a consigliare al pontefice di abbandonare il progetto del monumentale sepolcro: «Bramante architettore, che dal papa era amato, con dir quello che ordinariamente dice il volgo, esser mal'augurio in vita farsi la sepoltura ed altre novelle, lo fece mutar proposito. Stimolava Bramante, oltre l’invidia, il timore che aveva del giudicio di Michelagnolo, il quale molti suoi errori scopriva» [10].
Giulio II, che come Michelangelo era orgoglioso e determinato, minacciò lo scultore di compromettere con la sua fuga il rapporto fra le due città riconciliatesi solo da pochi anni, riuscendo a riportarlo in Vaticano.

Nella mente del papa si era delineato il progetto della prosecuzione pittorica della Sistina, a lui molto cara in quanto edificata e fatta decorare da suo zio Sisto IV della Rovere, con le pareti laterali che divennero alcuni fra i capolavori assoluti dei grandi maestri umbri e toscani del Quattrocento, vale a dire Pietro Perugino, Domenico Ghirlandaio, Cosimo Rosselli e Luca Signorelli.

Michelangelo, a cui fu affidata la volta, conosceva bene la tremenda fatica a cui andava incontro, dinanzi ad una superficie di cinquecento metri quadrati da dipingere con la testa rivolta verso l’alto, per di più costretto ad abbandonare il marmo, la sua vera passione, per cimentarsi nell’affresco, tecnica che non praticava da anni, quando appena tredicenne si recò a bottega dal Ghirlandaio.

Riconoscendo come maestri i suoi predecessori quattrocenteschi l’artista, nel 1508, cominciò l’impresa, spinto dall’ambizione personale e dal desiderio di superare il giovane rivale Raffaello, a cui il pontefice aveva affidato i propri appartamenti privati, le cosiddette Stanze.

Suggestivo è immaginare Raffaello impegnato nel capolavoro della Scuola di Atene, e contemporaneamente Michelangelo sospeso sui ponteggi della cappella magna.

La loro leggendaria rivalità celava però anche una profonda stima, come mostra la figura seduta in primo piano nella Scuola di Atene, il tenebroso filosofo Eraclito, aggiunto in seguito alla realizzazione dell’affresco, quando il Sanzio ammirò la volta Sistina, dettaglio che si può notare nel cartone preparatorio della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, dove manca Michelangelo.
L’urbinate decise di omaggiare l’eterno rivale nella sua opera più celebre, inserendo il suo ritratto fra gli spiriti più alti del passato e della contemporaneità, adeguando inoltre il proprio stile, connotato dalla grazia e dalla dolcezza delle forme, a quello michelangiolesco; ecco perché Eraclito, solitario e pensieroso nella sua posa, appare simile al profeta Geremia della volta, così descritto dal Vasari: «Vedesi quel Ieremia, con le gambe incrocicchiate, tenersi una mano alla barba posando il gomito sopra il ginocchio, l’altra posar nel grembo et aver la testa chinata, d’una maniera che ben dimostra la malenconia, i pensieri, la cogitazione e l’amaritudine che egli ha del suo popolo» [11].

Michelangelo come Eraclito nella Scuola di Atene (a sinistra) e il Profeta Geremia della volta (a destra).

Quasi venticinque anni più tardi Michelangelo si ritrovò nuovamente nella medesima condizione, quando ormai anziano e stanco affrontò la parete d’altare della Sistina, ponendo la sua stessa anima al cospetto del maestoso Giudizio, che sembra incombere su chiunque abbia il coraggio di osservarlo.

Proprio in questi anni l’artista ci offre i suoi versi più introspettivi, sia per lo scorrere degli anni, sia per l’emergere di una nuova visione religiosa e la scoperta dell’amore vero.

Ossessionato per tutta la vita dal marmo, dalla ricerca di perfezione nel portare alla luce i corpi imprigionati nei preziosi marmi di Carrara, Michelangelo nel suo lavoro pittorico al Giudizio doveva sentirsi proprio come uno dei suoi Prigioni, oggi alla Galleria dell’Accademia di Firenze, costretto giorno e notte nella solitudine della cappella.

Scrisse in questo periodo: «I’ sto rinchiuso come la midolla da la sua scorza, qua pover e solo, come spirto legato in un’ampolla» [12]. Si descrive poi, nel medesimo componimento, come «dilombato, crepato, infranto e rotto» [13] per le fatiche, giungendo sino all'apice dello sconforto in un verso modernissimo, quasi leopardiano: «la mia allegrezz’ è la maninconia» [14].

Queste parole appaiono come la trasposizione letteraria del noto autoritratto presente nel Giudizio finale, in cui l’artista si raffigurò nella pelle sorretta da San Bartolomeo, come se si augurasse di scontare le proprie colpe presentandosi a Dio in un involucro privo di vita.

Oltre a questo autoritratto e ai Prigioni, si può dire che ogni opera di Michelangelo riflette il suo carattere, il proprio modo di concepire l’arte, intesa come espressione dell’interiorità. Allo stesso modo in cui l’autore concepiva tutti i titanici progetti, sempre al limite delle proprie forze, quasi non riuscisse a controllare la sua volontà, le figure pittoriche o scultoree che realizzò manifestano «il ripiegarsi doloroso dell’essere su se stesso, l’energia inquieta, la volontà d’azione senza speranza di riuscita, e infine il martirio della creatura tormentata da aspirazioni irrealizzabili» [15]. Se, in sintesi, si paragona il Cristo del Giudizio, il cui temibile gesto sembra trattenuto da una riflessiva tristezza, con la statua di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino della basilica di San Lorenzo a Firenze, seduto ma allo stesso tempo tormentato interiormente da angosciosi pensieri, si può affermare che nel mondo michelangiolesco manca la completa quiete quanto la completa azione. L’eterna lotta dei Prigioni per liberarsi dalla materia, che opprime l’anima immortale, diviene lo specchio dell’esistenza dell’artista, della sua ricerca religiosa, che lo condusse addirittura a distruggere le proprie statue, come nel caso della Pietà Rondanini, la sua ultima opera, ritoccata sino a pochi giorni prima di morire, vero e proprio “testamento spirituale” [16].
Come espresse magnificamente lo scultore francese Auguste Rodin: «Tutte le statue che fece sono così angosciosamente oppresse che paiono volersi spezzare da sole. Sembra che siano tutte sul punto di cedere alla pressione troppo forte della disperazione che alberga in loro. Quando il Buonarroti divenne vecchio, giunse a spezzarle davvero. L’arte non l’appagava più. Voleva l’infinito» [17].

Nella prima metà del XVI secolo si diffusero in Europa idee cristiane sulla religione e sulla vita molto diverse da quelle insegnate dalla Chiesa cattolica. I sostenitori di idee contrarie, gli eretici, erano in precedenza sottoposti a scomunica e spesso condannati, ma in questo periodo si rafforzarono sempre più tali posizioni di condanna della realtà ecclesiale, così distante dai testi sacri e dal messaggio di Cristo raccontato nel Nuovo Testamento.

Ad essere messo in discussione fu il ruolo stesso della Chiesa, con Martin Lutero che riteneva inutile l’opera di mediazione esercitata dal papato tra l’uomo e Dio, in quanto solo la grazia, che discende direttamente da Dio, può veramente salvare.

Il Giudizio, affrescato regnante papa Paolo III Farnese, che nominò Michelangelo supremo architetto, scultore e pittore del Palazzo apostolico, appare come un avvertimento al mondo e alla Chiesa, che vacillava sotto i colpi della riforma protestante.

Il Buonarroti, grande spirito religioso, iniziò ad interessarsi alle idee di coloro i quali nutrivano l’aspirazione di un rinnovamento ecclesiale attraverso il dialogo con i riformati. Per tale motivo entrò in contatto, grazie all’amicizia con Vittoria Colonna, con il circolo degli spirituali, nel quale si potevano incontrare gli intellettuali più squisiti e problematici della Roma di allora, riuniti attorno alla figura del cardinale inglese Reginald Pole, il quale sfiorò l’elezione al soglio petrino nel conclave che nominò pontefice Paolo IV Carafa, capo dell’Inquisizione romana, che accusò Pole quale eretico.

Sulla sottile linea di confine fra ortodossia cattolica e riforma evangelica, Michelangelo era affascinato dalla raffinatezza della Colonna, la marchesa di Pescara elogiata dall'Ariosto per la sua poesia e dal papa per la sua santità, scambiando con lei delle lettere nelle quali emerge tutto il dissidio religioso di questi anni, ma anche poesie d'amore di estrema bellezza.

Un uomo in una donna, anzi uno dio
per la sua bocca parla,
ond’io per ascoltarla
son fatto tal, che ma’ più sarò mio.
I’ credo ben, po’ ch’io
a me da lei fu’ tolto,
fuor di me stesso aver di me pietate;
sì sopra ’l van desio
mi sprona il suo bel volto,
ch’i’ veggio morte in ogni altra beltate.
O donna che passate
per acqua e foco l’alme a’ lieti giorni,
deh, fate c’a me stesso più non torni [18].

Il poeta, al fine di esaltare le qualità dell'amata, afferma che in lei sente parlare un uomo; al tempo, infatti, si considerava l'uomo intellettualmente superiore. Nei versi successivi si corregge; attraverso la sua bocca sente parlare un dio. Così, nell'ascoltarla, l'artista capisce che non apparterrà più a sé stesso.

Venuta a mancare l’intima confidente, la compagna della sua speculazione religiosa e spirituale, Michelangelo affidò il suo sfogo ad un sonetto composto tra il 1552 e il 1554, in cui, in preda al più totale sconforto, giunse a mettere in discussione la sua stessa arte, che invece di avvicinarlo a Dio lo aveva allontanato sempre più dalla redenzione, divenendo “idolo e monarca”. L’arte intesa quindi come modello, come legge e religione, ora non gli bastava più; né lo scolpire, né tanto meno il dipingere potevano consolare la sua anima giunta ormai al tramonto dell’esistenza.

Giunto è già ’l corso della vita mia,
con tempestoso mar, per fragil barca,
al comun porto, ov’a render si varca
conto e ragion d’ogni opra trista e pia.

  Onde l’affettüosa fantasia
che l’arte mi fece idol e monarca

conosco or ben com’era d’error carca
e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia.
  Gli amorosi pensier, già vani e lieti,
che fien or, s’a duo morte m’avvicino?
D’una so ’l certo, e l’altra mi minaccia.
  Né pinger né scolpir fie più che quieti
l’anima, volta a quell’amor divino
c’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia [19].

L’artista rimase sempre fedele alla dottrina cattolica, come si percepisce dagli ultimi versi del componimento, tuttavia nel suo Giudizio notiamo che l’unica via per raggiungere la salvezza viene posta nell’estremità più alta del dipinto, quasi irraggiungibile nelle due lunette superiori della parete, dove sono raffigurati gli strumenti della Passione di Cristo: la croce e la corona di spine a sinistra, la colonna della flagellazione e la canna dove fu posta la spugna imbevuta d’aceto a destra. Si capisce che solo credendo veramente alla morte e Resurrezione di Gesù si può godere dell’eterna beatitudine.

Eppure, attorno alla gloriosa figura del Cristo giudice, un eroe dalle fattezze meravigliose immerso nel blu lapislazzulo tanto caro a Giotto, centinaia di figure sembrano lottare disperatamente, chi per sfuggire agli inferi, chi per conquistare il cielo. Una volta abbassato il potente braccio del Cristo, il destino sarà compiuto e sarà fatta la volontà di Suo Padre.

Commovente è l’immagine della Vergine Maria, raccolta in sé stessa, che sembra non voler assistere alla punizione dei reprobi. Ella non è più “refugium peccatorum” e non può ormai fare più nulla in quello che è l’ultimo giorno dell’umanità, la fine dei tempi.

Nemmeno i santi, che mostrano le insegne del loro martirio, sembrano certi di salvarsi, mentre gli angeli risvegliano i morti con il suono delle trombe dell’Apocalisse, mostrando i libri su cui è scritta la vita passata di ognuno. Il libro più grande, rivolto verso il regno dei dannati, indica che molte sono le colpe commesse dagli uomini; le virtù e i meriti sono invece poche, contenute nel libro più piccolo.

La crisi spirituale michelangiolesca e l’epoca di incertezze che stava attraversando la Chiesa fecero del Giudizio l’emblema non solo di una condizione personale dell’autore, ma di una pagina di storia moderna, ergendosi ad efficace ammonimento al mondo.

Quando venne svelato, suscitando allo stesso tempo ammirazione e sgomento, fu lo stesso papa Paolo a rimanerne sconvolto, tanto che secondo le testimonianze dell’epoca si inginocchiò in preghiera con le lacrime agli occhi, consapevole che presto a quel giudizio si sarebbe dovuto sottoporre anche lui, il successore di Pietro.
Scrisse il Vasari: «E mentre che si guardano le fatiche dell’opra sua, i sensi si stordiscono solo a pensare che cosa possono essere le altre pitture fatte e che si faranno, poste a tal paragone. Età veramente felice chiamar si puote e felicità della memoria di chi ha visto veramente stupenda maraviglia del secol nostro» [20].

Sorge spontaneo chiedersi dove trovò le forze Michelangelo, ormai sessantenne, per dedicarsi nuovamente ad un lavoro così logorante, per altri cinque anni lontano dal marmo fra le fredde mura della Sistina.
La risposta è affidata ad un componimento fra i più celebri della sua produzione, caratterizzato da un’incredibile potenza espressiva e dall’improvviso sgomento nel descrivere il divampare nel cuore di un nuovo sentimento d’amore, quello che priva di sé stessi, capace di portare alla convinzione che la propria vita dipenda totalmente dalla persona amata, sensazione che si ritrova nel sonetto precedente dedicato alla Colonna, ma che ha qui altro destinatario.
Comincia una nuova fase poetica nella quale vengono ripresi lo stile petrarchesco e dello stilnovo, come il topos dell’amore che trafigge il cuore dell’amante entrando attraverso gli occhi, specchio dell’anima, centrale in Cavalcanti, «Voi che per li occhi mi passaste ’l core» [21], in Petrarca, «et aperta la via per gli occhi al core» [22] e ricorrente infine nel poetare michelangiolesco, «Tu m’entrasti per gli occhi, ond’io mi spargo» [23].

Come può esser ch’io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio,
chi m’ha tolto a me stesso,
c’a me fusse più presso
o più di me potessi che poss’io?
O Dio, o Dio, o Dio,
come mi passa el core
chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo, Amore,
ch'al core entra per gli occhi,
per poco spazio dentro par che cresca?
E s’avvien che trabocchi? [24]

Fu l’amore per il gentiluomo romano Tommaso de’ Cavalieri a portare questa nuova energia creativa in Michelangelo, le cui opere migliori nacquero sempre dalla volontà di sfidare sé stesso o dal desiderio di creare qualcosa di straordinario per una persona amata.

Con il giovane instaurò quel rapporto di amore platonico che lega un maestro, che ha in sé l’intelletto e l’esperienza, al suo allievo, che possiede il talento e lo splendore dell’intera esistenza davanti a sé.

Scriveva il Buonarroti in una lettera a Tommaso nel 1533: «posso prima dimenticare il cibo di che io vivo, che nutrisce solo il corpo infelicemente, che il nome vostro, che nutrisce il corpo e l’anima, riempiendo l’uno e l’altra di tanta dolcezza, che né noia né timor di morte, mentre la memoria mi vi serba, posso sentire» [25].

Il Cavalieri, che si dilettava di arte e di architettura, ebbe in dono da Michelangelo preziosi insegnamenti e disegni di estrema finezza; in cambio non poteva che offrire il proprio entusiasmo, la propria giovinezza, il suo nobile animo albergato in un corpo meraviglioso. Eppure, senza saperlo, il ragazzo era stato in grado di colmare l’insaziabile desiderio di bellezza insito in Michelangelo. Era come se l’idea platonica si fosse finalmente calata nel reale, incarnandosi in una persona ben definita. Per questo messer Tommaso fu l’unico, afferma il Vasari, ad aver avuto l’onore di essere ritratto dal maestro, che si era sempre rifiutato di raffigurare il reale, se non di infinita bellezza.

Si può dunque definire come “adorazione per la bellezza” [26] il sentimento, oltre alla sincera amicizia, che l’artista provava per il Cavalieri, il quale poté salire sui ponteggi del Giudizio, influenzandone le innumerevoli rappresentazioni di nudi virili a cui diede vita il pennello di Michelangelo, del tutto disinteressato che la censura potesse condannare la sua arte, perché convinto che la bellezza fosse uno dei più rari e preziosi doni celesti e il nudo umano «la più opportuna celebrazione della perfezione divina» [27].
Così il Condivi: «In quest’opera Michelagnolo espresse tutto quel che d’un corpo umano può far l’arte della pittura» [28].
Lo strumento espressivo del Buonarroti è l’anatomia, per tale ragione il paesaggio è pressoché assente; ognuno dei corpi diviene portatore della propria storia, raccontando le aspirazioni, il male di vivere, l’intera esistenza del beato o del reprobo: «dando tanta forza alle pitture di tal opera, che ha verificato il detto di Dante: “Morti li morti e i vivi parean vivi”. E quivi si conosce la miseria de i dannati e l’allegrezza de’ beati» [29].
Sono proprio i dannati quelli più riusciti, deformati da espressioni strazianti mentre si torcono nell’aria per sfuggire alla cattura dei demoni o cercano di fuggire alla furia di Caronte, che percuote le anime dei peccatori con il remo [30].
Nell’estremità destra della parete Minosse ha il compito di assegnare ai dannati il luogo della loro pena eterna, attorcigliando la coda tante volte quanti sono i cerchi da discendere [31].

Nel suo volto si scorge il ritratto grottesco di Biagio da Cesena, il cerimoniere del papa che aveva definito indegni e immorali tutti quei corpi nudi soprattutto in un luogo tanto simbolico per la cristianità.

Sarà il Concilio di Trento, conclusosi appena prima della morte del Buonarroti, a condannare la nudità nella pittura religiosa, mettendo in discussione centinaia di dipinti, compreso il Giudizio, mentre a Daniele da Volterra, amico di Michelangelo, verrà affidato l’ingrato compito di ricoprire le parti più scandalose dell’opera, passando alla storia con l’appellativo di “Braghettone”.

Sembra che Michelangelo abbia voluto imitare nel suo capolavoro l’amato Dante, che nella cantica più bassa, quella dell’Inferno, aveva raggiunto per espressività le sue vette artistiche, riuscendo ad esprimere con passione il travaglio del cristiano, in un vero e proprio affresco del mondo e dell’umanità.
Nuova linfa donò il Cavalieri anche nel modo di scrivere di Michelangelo, i cui scritti divennero più passionali rispetto a quelli per la Colonna, con la caratteristica dell’immediatezza propria del trasporto amoroso. Il poeta si concentrò sempre nell’esaltazione della forza del concetto piuttosto che nell’adeguamento di quest’ultimo a un’ideale limpidezza espressiva, tipica del petrarchismo.
Nel sonetto che segue, tra i più riusciti del Buonarroti, l'attenzione è rivolta al processo di totale identificazione dell'amante con l'amato. Il sodalizio con il Cavalieri permette all'artista di ritrovare l'entusiasmo soffocato dalla vecchiaia, riuscendo a vedere attraverso gli occhi del giovane, a camminare con i suoi piedi, a volare verso il cielo per mezzo dei suoi pensieri.
L'artista è pervaso da una nuova luce, paragonandosi alla Luna illuminata dal Sole, ossia l'amato. Questo sentimento cambiò anche il suo modo di approcciarsi alla realtà; così, se prima la misantropia lo aveva rilegato nella solitudine, a seguito dell'incontro con l'innamorato doveva sicuramente apparire più affabile e cordiale.
La loro unione riguarda l’anima e i sentimenti più profondi; si legge nella seconda parte del componimento dell'intesa di parola e di pensiero, in una perfetta armonia. A livello filosofico tale rapporto ben si esprime con il pensiero neoplatonico, in particolare con quanto scrisse Marsilio Ficino: «quando due insieme s’amano: costui in colui e colui in costui vive» [32], legge universale dell'amore.
Veggio co’ be’ vostr’occhi un dolce lume
che co’ mie ciechi già veder non posso;
porto co’ vostri piedi un pondo addosso,
che de’ mie zoppi non è già costume.
  Volo con le vostr’ale senza piume;
col vostro ingegno al ciel sempre son mosso;
dal vostro arbitrio son pallido e rosso,
freddo al sol, caldo alle più fredde brume.
  Nel voler vostro è sol la voglia mia,
i miei pensier nel vostro cor si fanno,
nel vostro fiato son le mie parole.
  Come Luna da sé sol par ch’io sia,
ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno
se non quel tanto che n’accende il Sole [33].

Il sentimento per l’allievo non compromise quello per la marchesa di Pescara, come ben dimostra la figura centrale del Giudizio, il Cristo giudice, uomo dalle meravigliose fattezze di lottatore, ma pur sempre un uomo come gli altri, emblema di coloro che avevano «l’idea di un rapporto individuale fortemente emozionale tra l’uomo e la fede» [34], cercando di riavvicinare ogni cristiano a Gesù in un legame privato e diretto.

15 marzo 2021

Ringrazio il Professor Luca Beltrami per la sua gentilezza e disponibilità.

Note bibliografiche

  1. Andrea Battistini (a cura di), Letteratura italiana. Dalle origini al Seicento, Bologna, il Mulino, 2014, p. 295.
  2. Erwin Panofsky, Il movimento neoplatonico e Michelangelo, in «Studi di iconologia: I temi umanistici nell’arte del Rinascimento», 1939; Einaudi 1975, pp. 236-273.
  3. Michelangelo Buonarroti, Rime e Lettere, a cura di Antonio Corsaro e Giorgio Masi, Milano, Bompiani, 2016, p. 806.
  4. Michelangelo Buonarroti, Rime, a cura di Paolo Zaja, Milano, BUR, 2010, p. 61.
  5. M. Buonarroti, Rime e Lettere, cit., p. 523.
  6. Antonio Forcellino, Michelangelo. Una vita inquieta, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 79.
  7. Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi, vol. II, Torino, Einaudi, 2015, p. 887.
  8. Michelangelo Buonarroti, Le poesie e la vita (narrata dal Condivi), Roma, Carlo Mancosu Editore, 1993, p. 114.
  9. M. Buonarroti, Rime e Lettere, cit., p. 488.
  10. M. Buonarroti, Le poesie e la vita (narrata dal Condivi), cit., p. 98.
  11. G. Vasari, op. cit., p. 896.
  12. M. Buonarroti, Rime, cit., p. 494.
  13. Ivi, p. 495.
  14. Ibidem.
  15. Auguste Rodin, L’arte. Conversazioni raccolte da Paul Gsell, a cura di Luca Quattrocchi, Milano, Abscondita, 2003, p. 119.
  16. Antonio Paolucci, Michelangelo. La Pietà Rondanini, Milano, Skira, 1999, p. 7.
  17. A. Rodin, op. cit., p. 130.
  18. M. Buonarroti, Rime, cit., p. 437.
  19. M. Buonarroti, Rime, cit., p. 521.
  20. G. Vasari, op. cit., p. 909.
  21. Guido Cavalcanti, Rime, a cura di Marcello Ciccuto, Milano, BUR, 2001, p. 93.
  22. Rvf 3,10.
  23. M. Buonarroti, Rime, cit., p. 146.
  24. Ivi, p. 67.
  25. M. Buonarroti, Rime e Lettere, cit., p. 652.
  26. Irving Stone, Il tormento e l’estasi, Milano, Corbaccio, 2016, p. 743.
  27. Antonio Forcellino, Michelangelo Buonarroti. Storia di una passione eretica, Torino, Einaudi, 2002, p. 29.
  28. M. Buonarroti, Le poesie e la vita (narrata dal Condivi), cit., p. 131.
  29. G. Vasari, op. cit., p. 907.
  30. Cfr. Inferno 3, 82-87.
  31. Cfr. Inferno 5, 4-6.
  32. M. Buonarroti, Rime e Lettere, cit., p. 37.
  33. Ivi, p. 38.
  34. A. Forcellino, Michelangelo Buonarroti. Storia di una passione eretica, cit., pp. 119-120.