Giosuè Carducci

Giosuè Carducci è stato il più grande rappresentante della nuova poesia italiana di fine Ottocento. Egli volle restituire dignità alla poesia italiana, indebolita dalle imitazioni dei poeti stranieri. Per fare questo cercò di educare moralmente attraverso l’arte. Le letture di Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi stimolarono in lui il culto per le tradizioni e per gli ideali classici; la sua poetica omaggia infatti la tradizione greca, romana e il Rinascimento italiano.
Il risultato è una poesia alta, solenne, ma anche a noi famigliare, intrisa di sentimenti delicati, che rivela affetti e sofferenze attraverso l’alternarsi di paesi soleggiati e lunari malinconie.

…Tra le rossastre nubi

Stormi d’uccelli neri,

Com’esuli pensieri,

Nel vespero migrar…

Carducci nacque nel 1835 a Valdicastello di Pietrasanta in provincia di Lucca. Il padre, Michele Carducci, uomo dalle forti passioni politiche e di tempra irascibile, di professione era medico e fu una figura decisiva per l’educazione intellettuale del futuro poeta. Anch’egli sin da piccolo mostrava le caratteristiche che lo contraddistinsero per tutta la vita: ribelle, selvatico, amante della natura.

Quando nel 1838 la famiglia si trasferì a Bolgheri, nella Maremma Livornese, il giovane Giosuè, colpito ripetutamente da febbri che lo tormentarono per due anni, poté dedicarsi alle prime letture: l’Iliade e l’Odissea di Omero, l’Eneide di Virgilio e la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso.

Nei dieci anni a Bolgheri la famiglia visse in povertà e non era possibile per Giosuè frequentare le scuole; il padre incaricò così un sacerdote di dargli lezioni di latino durante il giorno, mentre la sera era direttamente Michele a impartirgli l'insegnamento di una lingua che il giovane amò sin da subito.

Nel 1849 si trasferirono a Firenze, dove Giosuè iniziò a studiare e conobbe la giovane Elvira Menicucci, con cui crebbe insieme fino a sposarla dieci anni dopo.

Oltre alla passione per Foscolo e Leopardi, si accostò ai testi di Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti e Pietro Metastasio. Nel 1853 si iscrisse alla Facoltà di Lettere alla Scuola Normale Superiore di Pisa dedicandosi allo studio anima e corpo, con quell'amore estremo di cui già aveva dato prova negli anni precedenti. Al di fuori dell'orario di lezione, le giornate si consumavano abitualmente entro le pareti della sua stanza. Ottenne la laurea in filosofia e filologia e già poco dopo insegnava retorica al Ginnasio di San Miniato al Tedesco. Ai suoi ragazzi faceva tradurre e commentare soprattutto Virgilio, Orazio e Dante.

Lo stesso anno fondava con degli amici la Società degli “Amici Pedanti”, che si impegnava nella difesa della tradizione letteraria italiana contro il sentimentalismo tardo-romantico e le tendenze straniere.

Alla fine del Settecento e nell’Ottocento, con la stagione romantica, si era sviluppata una poesia che attribuiva al paesaggio la capacità di esprimere i sentimenti più intimi dell’animo del poeta. Nel secondo Ottocento il rapporto con la natura continua ad essere presente nella poesia, ma cambia decisamente il modo di sentire e vivere tale condizione da parte del poeta. È in questo periodo, infatti, che in Europa prevale la poesia simbolista, la cui data di nascita si è soliti far coincidere con la pubblicazione della poesia Corrispondenze di Charles Baudelaire. Il Simbolismo recupera alcuni aspetti del Romanticismo coniugandoli, però, con un linguaggio poetico estremamente complesso e allusivo. In particolare viene messo in discussione il rapporto tradizionale tra io e natura e, anziché rappresentare il paesaggio come manifestazione dello stato d’animo, viene privilegiata, nel rapporto con la natura, la ricerca di una dimensione oscura e profonda della psiche umana, in relazione con l’inconscio.

In Italia la situazione si rivela differente rispetto al contesto europeo, in quanto si rafforza la tradizione classicistica basata su una poetica antiromantica, volta a privilegiare un linguaggio aulico e accademico. Questa reazione classicistica trova proprio in Carducci il principale esponente. Nella sua poetica la natura è intesa come regno dell’armonia, associata al ricordo del passato, della giovinezza, in un presente che provoca il rimpianto nostalgico. L’amore per la natura esprime dunque una situazione psicologica di amarezza disillusa, di ripiegamento malinconico. L’armonia, insomma, appartiene al passato e diviene il paesaggio della giovinezza.

Temi quali la natura e la giovinezza vengono ripresi dallo studio di Leopardi al quale, insieme a Pietro Giordani, “autori e maestri”, dedica nel 1857 la prima raccolta delle Rime, che affermarono Carducci tra il pubblico colto come il giovane di punta della letteratura fiorentina.

Una fotografia d'epoca del giovane Carducci.

Continuando a dedicarsi con impegno nel lavoro, curò per un editore le edizioni di Cino da Pistoia, Lorenzo de’ Medici, Vincenzo Monti, Vittorio Alfieri, Giuseppe Giusti e Dante Gabriel Rossetti.

Presto però, il poeta ricevette la notizia che il fratello Dante aveva posto fine alle sue sofferenze. Già malato e sconvolto dall’accaduto, il padre Michele sarebbe morto qualche mese dopo, e Giosuè dovette farsi carico del sostentamento della famiglia.

Il 1859 fu l’anno delle nozze con Elvira, dalla quale avrà cinque figli, Francesco, morto pochi giorni dalla nascita, Dante, Beatrice, Laura e Libertà. Si noti nei nomi scelti le dediche al Sommo Poeta e a Francesco Petrarca.
L'anno seguente, il 1860, fu l'anno della svolta per Carducci che ottenne la cattedra di eloquenza italiana all'Università di Bologna, trasferendosi nella città che più avrebbe amato e rappresentato. Fu professore sino al 1904 quando gli successe Giovanni Pascoli.
Oltre all'impegno delle lezioni, sempre preparate con scrupolo religioso, Carducci continuava le collaborazioni editoriali non dimenticando mai il suo ruolo di poeta. Si dedicò con amore al lavoro di professore che riteneva fondamentale per l'educazione e l'istruzione delle nuove generazioni. Per i suoi ragazzi, scriveva all'amico Giuseppe Chiarini, uno dei membri degli "Amici Pedanti", riteneva fondamentale la conoscenza e l'approfondimento delle Tre corone fiorentine: Dante, Petrarca e Boccaccio.
Nel secondo anno bolognese tenne un corso specifico sul Petrarca, mentre nel 1865 festeggiava il VI centenario della nascita di Dante.

L'aula in cui Carducci tenne le lezioni dal 1860 al 1904.

Il 1870, invece, un anno doloroso per i lutti famigliari; dopo aver perso l'amata madre, il 9 novembre sopraggiunse il più grande dolore nella vita del poeta, la perdita del figlio Dante, evento drammatico che condiziona la poesia di Carducci inclinandola verso la meditazione sulla morte. Il professore cominciò così a guardarsi indietro per trarre le somme della vita trascorsa e interrogarsi sugli anni a venire. "A febbraio la mia povera mamma; ora il mio bambino; il principio e la fine della vita e degli affetti".

Così scriveva a Chiarini: "Caro amico, il mio povero bambino mi è morto; morto mercoledì passato, d'un versamento al cervello". I medici avevano fatto di tutto, ma il piccolo Dante, caduto "in un sopore quasi brutale, rotto di quando di quando dalle smanie della febbre e da qualche intervallo di conoscenza in cui chiamava la mamma", lo lasciava per sempre. "E così mi morì. Mi morì a tre anni e quattro mesi; ed era bello e grande e grosso, che pareva per l'età sua un miracolo. Ed era buono e forte e amoroso, come pochi. E io avevo avviticchiate intorno a quel bambino tutte le mie gioie tutte le mie speranze tutto il mio avvenire: tutto quel che mi era rimasto di buono nell'anima lo avevo deposto su quella testina. Quando mi veniva innanzi, era come se mi si levasse il sole nell'anima, quando posavo la mano su quella testa, scordavo ogni cosa triste, e l'odio, e il male; mi sentivo allargare il cuore, mi sentivo buono. Povero il mio bambino, e povero me: come vuol esser tristo quest’altro pezzo di vita, quest’altro pezzo di vita che io mi ero avvezzato come tutta data a lui e da lui rasserenata e confortata. Mi pareva che dovessimo camminare insieme; io a insegnargli la strada, lui a sorreggermi, finché io mi riposassi, ed ei seguitasse più puro e meno tristo di me. Lo volevo crescere libero, forte, modesto, e l’indole sua mi prometteva certo che sarebbe. Avrebbe, a mio mancare, sostenuto la madre sua e le sorelle: si sarebbe ricordato di me, e avrebbe mantenuto onorato il mio nome".

L’albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da’ bei vermigli fior,

Nel muto orto solingo
Rinverdí tutto or ora
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l’inutil vita
Estremo unico fior,


Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor.

L'insegnamento e l'attività poetica, insieme al volume Poesie del 1871, gli diedero la piena affermazione come maestro e critico, figura fondamentale della letteratura italiana ed europea. Nello stesso anno giunse una svolta inaspettata, quando irruppe nella sua vita Carolina Cristofori Piva con la quale iniziava un colloquio epistolare tra i più celebri e suggestivi dell'intero Ottocento. La donna, aspirante poetessa residente a Milano, fu rapita dai versi del poeta, sempre più bisognoso di sentirsi vivo. La relazione rimase comunque principalmente epistolare, idilliaca, piuttosto che realmente vissuta. Lidia o Lina, così veniva cantata nelle poesie, arricchì la produzione di Carducci di una nuova intensità sentimentale.
Sono questi, infatti, gli anni della maturità dello scrittore, che da un punto di vista poetico è caratterizzata dalla presenza di temi più intimi e autobiografici e dal motivo del paesaggio. Molti componimenti di questo periodo confluiscono nella raccolta Odi barbare , edita da Zanichelli nel 1887, che costituisce la sua opera più importante e significativa. Così nuove e aristocratiche, così impervie per la maggior parte dei lettori, quelle poesie fecero subito discutere; esse riflettevano l'apertura di Bologna alle grandi correnti della cultura europea, traducendo in versi "l'immensa sonante epopea" di Richard Wagner e comprendendo suggestioni culturali passate e presenti, latine e germaniche, da Orazio e Virgilio sino a Goethe e August von Platen.
Quest'ultimo era un autore molto amato dal Carducci, che in una lettera a Chiarini del 1872 lo definisce "grande artista e poeta: freddo ma profondo, e splendido e puro come marmo pario". Proprio la traduzione di un componimento di Platen intitolato La lirica viene posto a conclusione della raccolta Odi barbare.
Sempre appartenente alle Odi barbare e riguardante il sentimento per Lidia, è la poesia Alla stazione in una mattina d'autunno che rievoca una vicenda autobiografica in un contesto autunnale malinconico e carico di emozione. Nel 1878 compose di getto la famosa ode Alla Regina d'Italia, ispirata all'incontro con Margherita di Savoia e inserita nell'edizione delle Odi barbare del 1882.
Torna in seguito anche il pensiero della morte, così come torna il freddo dell'inverno, evocato dal silenzioso e immobile paesaggio di Nevicata, scritta lo stesso anno, il 1881, in cui morì Lidia, l'amata musa ispiratrice.

Nel 1893 Carducci era al Teatro alla Scala di Milano per la prima del Falstaff, l'unica opera comica del repertorio di Giuseppe Verdi con cui il compositore, all'età di ottant'anni, riusciva ancora una volta a stupire il pubblico.

Nell'ultima fase di produzione il rapporto con la natura, rifugio privato del poeta, fonte di pace e letizia come nel sonetto Il bove e ricordo degli anni felici dell'adolescenza in Idillio maremmano, si manifesta ora in tutta la sua complessità ed evoca atmosfere cupe, avvolte dalla nebbia, e scenari malinconici. Da questo punto di vista la poesia di Carducci si avvicina molto a quella del suo allievo Giovanni Pascoli. Lo sfuggire dei pensieri, in San Martino, che si perdono nell'infinito cielo della sera come uccelli che migrano, provoca una tristezza nel cuore, tipica del momento del tramonto, però allo stesso tempo ci dona una sensazione di compiutezza, di qualcosa che se ne va ma che è destinato a rimanere indelebile. Carducci questa sensazione l'ha provata costantemente nella sua esistenza, con gli addii, i lutti, così difficili da superare, dai quali però è scaturita allo stesso tempo quella forza, quella necessità di vivere anche per altri, per chi aveva amato nel profondo. Per questo la poesia e il pensiero del professore, una volta scomparso, sarebbero rimasti per sempre, intramontabili, continuamente vivi nei suoi allievi e in chi ogni volta, con animo sensibile, si metterà a leggere i suoi versi.
Tutto ciò valse a Carducci il premio Nobel per la letteratura nel 1906. Fu il primo italiano a riceverlo, per la dimensione etica di una poesia che aveva accompagnato, per un quarto di secolo, il riscatto di un popolo intero, e riproposto il grande mito del Rinascimento recuperando il passato al fine di comprendere e migliorare il presente.
Carducci si spense nel 1907 a Bologna e venne sepolto alla Certosa, il cimitero in cui aveva ambientato la poesia Presso una Certosa.