Canto XXI

Stazio

Ritratto di Stazio - Luca Signorelli - Cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto

Col nome che più dura e più onora
era io di là [...]
cantai di Tebe e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.

Ascesi alla quinta cornice della montagna del Purgatorio, dove sono le anime degli avari e dei prodighi, Dante e Virgilio sono scossi da un terremoto di cui il Poeta non si spiega la ragione e, nell'introduzione del canto, mostra il desiderio di conoscerne la causa. Improvvisamente, alle sue spalle, appare un'ombra che spiega come nel Purgatorio, luogo esente da ogni fenomeno atmosferico terrestre, la scossa di terremoto non si giustifica per le ragioni fisiche che la generano nel mondo, avvertendosi ogni qualvolta un'anima si trova ad aver completato il proprio percorso di purificazione ed è quinti pronta ad accedere al Paradiso terrestre.
Inizialmente l'anima che racconta non rivela il proprio nome, mostrandosi cortese nel salutare i due pellegrini ma non privo di stupore nell'incontrarli. Virgilio, anch'egli senza dichiarare il suo nome, narra allora con malinconia la propria eterna condizione di spirito rilegato nel Limbo, spiegando la volontà celeste del suo compito di guida nello straordinario viaggio dantesco. Prega poi lo spirito perché si riveli, così finalmente noi lettori ne scopriamo la misteriosa identità: "Stazio la gente ancor di là mi noma".
Costretto a scontare per un lunghissimo tempo le proprie colpe, il poeta latino Stazio, vissuto nella seconda metà del I secolo, poco dopo la morte di Cristo, sarà il terzo poeta a proseguire l'ascesa al monte insieme a Dante e Virgilio, divenendo un'ulteriore guida che accompagnerà il Poeta sino alla conclusione della cantica, più avanti anche dello stesso Virgilio, che nel Canto XXX lascerà il posto a Beatrice.
Vissuto ai tempi dell'imperatore Tito, figlio di Vespasiano, Stazio cita i due poemi che compose, vale a dire il capolavoro del Tebaide, e l'Achilleide, quest'ultimo lasciato incompleto a causa della morte, ergendosi con la sua autorevole figura ad emblema del valore della poesia, vertice artistico che assicura fama e prestigio a chi la onora. Ricorda poi l'Eneide, definendola "mamma" in tono affettuoso e celebrandola come l'opera da cui trasse ispirazione, non solamente a livello stilistico ma anche nel cammino della propria redenzione, sottolineando come il poema virgiliano sia stato fondamentale per la scoperta della fede cristiana. Dante, che colloca Stazio in Purgatorio in quanto, pur ricevuto il battesimo, non aveva osato dichiararsi cristiano, credeva infatti nella leggenda della conversione del poeta latino al cristianesimo, la quale sarebbe maturata a seguito della lettura di Virgilio, considerato come un profeta della venuta di Cristo.
Stazio, rammaricato del fatto di non essere vissuto al tempo di Virgilio, aggiunge che, se gli fosse concesso di conoscerlo, accetterebbe di fermarsi un anno in più a scontare i propri peccati in Purgatorio, anteponendo alla salvezza e alla beatitudine eterna la volontà di conoscere il suo maestro, caratteristica tipica di un poeta piuttosto che di un santo. Questi versi sono l'occasione per l'Alighieri di rendere un altro dei sinceri omaggi alla propria amorevole guida. La bellezza e la teatralità del poetare dantesco risiedono, inoltre, nel fatto che sino adesso Stazio non conosce la reale figura che ha dinanzi, ossia Virgilio, scelta stilistica con cui il Poeta rende la lode del tutto incondizionata e l'attesa ancor più trepidante per noi lettori, appagati solamente quando Dante svela a Stazio l'identità della sua guida.
Stazio, notando l'emozione di Dante, gli chiede come mai un sorriso d'imbarazzo abbia attraversato il suo volto una volta accennato a Virgilio, così il Poeta rivela che, al suo fianco, vi è proprio l'autore dell'Eneide.
Chinatosi ai piedi di Virgilio, Stazio cerca con commozione di abbracciare il maestro, quasi dimenticandosi di essere uno spirito. Virgilio dichiara di ricambiare la stima e l'affetto che Stazio prova per lui, dando inizio ad una di quelle amicizie ideali, si pensi a Sordello nel Canto VI, che contraddistingue la seconda cantica, ricca anche di incontri con illustri poeti, come si vedrà nel Canto XXIII con Forese Donati, nel Canto XXIV con Bonagiunta Orbicciani e, infine, con Guido Guinizzelli nel Canto XXVI.

Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch'io fei;
ma più d'ammirazion vo' che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d'i dèi. [...]
Già s'inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se' ombra e ombra vedi».
Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate
comprender de l'amor ch'a te mi scalda,
quand'io dismento nostra vanitate,
trattando l'ombre come cosa salda».

Il dipinto

L'affresco raffigurante il monte del Parnaso, opera di Raffaello Sanzio che decora la parete dedicata alla poesia nella Stanza della Segnatura presso i Musei Vaticani, ci mostra Dante, alle spalle del cieco Omero, rivolto verso Virgilio, il quale, in un silenzioso dialogo, indica con la mano la via da seguire. Accanto a Virgilio si scorge il volto di Stazio, protagonista di questo canto del Purgatorio, quasi Raffaello avesse fermato eternamente il ricordo e l'incontro di questi versi, sicuramente fra i più belli del poema.