Anacreonte

Parnaso (dettaglio con al centro Anacreonte) - Raffaello Sanzio - 1510 circa - Musei Vaticani

Di due generazioni più giovane rispetto a SaffoAlceo, Anacreonte è il terzo grande esponente della melica monodica, la prima figura di poeta di corte.
Nato verso il 570 a.C. nella città ionica di Teo, visse infatti a contatto con tiranni come Policrate di Samo, conferendo lustro all'ambiente di corte con l'arte del suo canto insieme a Ibico e Simonide.
Oltre alla prevalente tematica amorosa, Anacreonte sviluppò anche temi politici, come ricavato dai pochi frammenti superstiti, tuttavia evitava, a differenza di Alceo, di toccare questioni di conflittualità forse adeguandosi al potere assoluto dei suoi committenti.
La figura del poeta di corte avrà grande fortuna tra la fine dell'età arcaica e l'inizio dell'età classica: a questa tipologia, appartengono, per esempio, i poeti Pindaro e Bacchilide.
La carriera di Anacreonte fu dunque quella di poeta del simposio, cantore dell'amore e del piacere di vivere. Narra per esempio dell'amore omoerotico e dell'indifferenza dell'amato: "Ragazzo dallo sguardo virginale, io ti desidero, ma tu non mi dai ascolto, ignaro che del mio cuore tiene le redini", in linea con la tradizione lirica del simposio, ma anche dell'amore eterosessuale rivolto a graziose ragazze. In un frammento troviamo dei paragoni tra una ragazza ritrosa e degli animali, secondo una tradizione già incontrata in Semonide.
Il poeta riprende anche la tematica del vino connessa ai motivi dell'amore e del banchetto, come Alceo, e argomenti tradizionali quali la vecchiaia e la morte, ricorrenti nei versi dei lirici precedenti, in particolare in Mimnermo, e suggestivi quadri naturalistici come in Saffo.
Non meno importante è infine la rappresentazione divertita e ironica di atteggiamenti e situazioni umane.
Secondo una tradizione Anacreonte morì nel 485 a.C. circa soffocato da un acino d'uva, alludendo maliziosamente alla sua vita trascorsa alla corte di signori potenti nel fasto di sontuosi banchetti.

Ormai canute son le mie
tempie, e bianco è il capo:
la giovinezza amabile
non c'è più, e vecchi sono i denti:
della vita dolce non molto
è il tempo che resta.
Per questo, io piango
spesso, temendo il Tartaro.
Terribile è l'antro
di Ade: penosa
è la discesa; e per chi è andato giù
è destino non risalire.