D'Annunzio e Mussolini

La storia del rapporto tra il Vate e il fascismo

All'inizio del XX secolo Gabriele d'Annunzio era già considerato il letterato più importante e influente d'Italia, l'unico in grado di proseguire la grande tradizione poetica italiana.
Il nostro paese viveva un periodo di incertezza nel quale apparivano ormai lontani gli ideali risorgimentali e patriottici che il 17 marzo 1861 avevano portato all'unificazione nazionale. D'Annunzio era nato due anni dopo quell'evento, il 12 marzo 1863.
Il nuovo secolo si aprì con l'uccisione del re Umberto I a Monza, il 29 luglio 1900, da parte dell'anarchico Gaetano Bresci. L'Italia era afflitta dalla carestia e dalle epidemie di colera, con la folla che si lamentava per l'aumento del prezzo del pane. Il Primo ministro Antonio di Rudinì decise di ricorrere alle forze di polizia e all'esercito per fronteggiare le proteste. Così a Milano, nel maggio del 1898, il generale dell'esercito Bava Beccaris ordinò di sparare sui manifestanti. Il re Umberto premiò il suo comportamento invece che condannarlo. Questa fu la causa scatenante del suo assassinio.

Sembrava, oltre che la fine di un secolo, la conclusione di un glorioso periodo storico a cui subentravano molte inquietudini e paure. Ad Umberto successe il figlio, Vittorio Emanuele III, che sarà il re di due tragiche guerre mondiali, incapace di contrastare l'ascesa al potere del fascismo e di Benito Mussolini, o semplicemente, silenzioso complice.

Emblema di questa conclusione di una parte di storia furono due funerali a cui parteciparono folle immense, quelli di Giuseppe Verdi e di Giosuè Carducci, le cui opere erano divenute il simbolo del Risorgimento. Lo stesso d'Annunzio scrisse una poesia in onore della morte del compositore, contenuta in Elettra, il secondo libro della grandiosa raccolta delle Laudi. Intanto Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo, scriveva in francese Les Dieux s'en vont, d'Annunzio reste, "Gli Dei se ne vanno d'Annunzio resta", un'opera dedicata al Vate, degno modello da seguire dopo la perdita di questi due monumenti del nostro patrimonio artistico.

I primi quindici anni del secolo si caratterizzarono tuttavia, sino all'ingresso nella Prima guerra mondiale, per una situazione politica relativamente positiva, segnata dall'ascesa di Giovanni Giolitti in quella che è ricordata come l'età giolittiana.
Il clima politico internazionale, però, celava dei malumori e dei sentimenti di paura che contrastavano con quella che a livello socio-culturale era celebre come la Belle Époque.
La goccia che fece traboccare il vaso, mettendo in risalto tutti i contrasti tra le potenze europee, fu l'annessione della Bosnia da parte dell'Austria, a cui si oppose la Serbia, sentendosi minacciata e contrastata nelle sue ambizioni nazionaliste.
Così la Grande Guerra ebbe inizio quando il 28 giugno 1914 a Sarajevo, capitale della Bosnia, venne assassinato Francesco Ferdinando, erede al trono dell'Austria. L'omicidio fu compiuto pubblicamente da uno studente universitario serbo-bosniaco.
L'Italia optò inizialmente per una posizione di neutralità al conflitto, nonostante si costituirono due schieramenti opposti, uno a favore della neutralità e uno a favore dell'intervento. Tra i neutralisti vi erano molti liberali, tra cui personaggi di assoluta rilevanza, come Giolitti, ma anche i cattolici ed il papa, Benedetto XV, infine i socialisti, guidati dall'allora direttore dell' "Avanti!", Benito Mussolini. Egli si era imposto come la figura più popolare del socialismo italiano, ammirato dai giovani rivoluzionari, sostenuto dalle masse e rispettato dagli intellettuali antigiolittiani, divenendo presto il leader effettivo del partito. Poco dopo Mussolini sarà però il grande traditore dei socialisti, schierandosi improvvisamente a favore dell'intervento in guerra ritenendo che il conflitto potesse avere una valenza rivoluzionaria.
Tra le voci più influenti dell'interventismo era invece Gabriele d'Annunzio, noto per i suo gesti clamorosi come il celebre volo su Vienna, nel quale lanciò migliaia di volantini tricolori contenenti una provocatoria esortazione alla resa.

D'Annunzio pronto per il volo su Vienna e l'aereo conservato al Vittoriale.

Determinante per l'entrata in guerra del nostro paese fu il segreto Patto di Londra, firmato con i rappresentanti della Triplice Intesa (Inghilterra, Francia e Russia), col quale l'Italia si schierava contro gli Imperi centrali, ottenendo in cambio, nel caso di vittoria, il Trentino, il Tirolo sino al Brennero, il Friuli-Venezia Giulia, l'Istria e la Dalmazia.

D'Annunzio si arruolò come volontario e partecipò attivamente al conflitto, sebbene non in trincea, bensì servendosi della guerra come un vero e proprio palcoscenico di gloria, elegantissimo nella sua uniforme cucita da un sarto, quasi come un magnifico condottiero rinascimentale.

Tuttavia, durante un ammaraggio, si ferì all'occhio destro battendo la testa e rischiò di perdere la vista. Costretto a rimanere a letto nella completa oscurità per almeno tre mesi, lo scrittore compose nel 1916 la sua opera più intima e riflessiva, il Notturno, costituita dalle sole sensazioni dell'anima e dello scorrere dei ricordi nella mente. Ad assisterlo l'amata figlia, la "Sirenetta" del libro, grazie alla quale riuscì a scrivere su migliaia di strisce di carta i componimenti, caratterizzati per questo da frasi brevi e periodi concentrati, dal prevalere della soggettività e dalla rievocazione del passato.

«Imparo un′arte nuova.

Quando la dura sentenza del medico mi rovesciò nel buio, m′assegnò nel buio lo stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro, quando il vento dell′azione si freddò sul mio volto quasi cancellandolo e i fantasmi della battaglia furono d′un tratto esclusi dalla soglia nera, quando il silenzio fu fatto in me e intorno a me, quando ebbi abbandonata la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. [...]

Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille che scrivevano la sentenza breve su le foglie disperse al vento del fato.

Sorrisi d′un sorriso che nessuno vide nell'ombra quando udii il suono della carta che la Sirenetta tagliava in liste per me, stesa sul tappeto della stanza attigua, al lume d′una lampada bassa».

Fu proprio il mancato rispetto del Patto di Londra, raggiunto solo in modo parziale con l'annessione di Trento e Trieste, a portare d'Annunzio a definire l'esito della guerra per il nostro paese una "vittoria mutilata" e a creare i presupposti per l'Impresa di Fiume.
Insieme ad un gruppo di soldati e volontari il Comandante, com'era soprannominato, occupò il 12 settembre 1919 la città situata nell'odierna Croazia, contesa allora tra il Regno d'Italia e la Jugoslavia.
Primo poeta capo di Stato, d'Annunzio scrisse durante i mesi di reggenza una modernissima costituzione, la Carta del Carnaro, ancora oggi lodevole e attuale, basti pensare che in un periodo in cui si discuteva sul tema del voto alle donne, egli scrisse che non solo le donne avevano il diritto di votare, ma potevano anche essere elette.

Il Vate a Fiume.

Bisogna ricordare, però, che a Fiume nacquero dei rituali, come i discorsi dal balcone, l'adozione del saluto romano ed alcuni motti che saranno ripresi dal regime fascista, per questo il poeta viene ancora oggi ricordato come il mentore di Mussolini.
Così il Vate annunciò l'annessione di Fiume all'Italia dopo essere entrato in città acclamato dalla popolazione italiana:

«Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile, Fiume è oggi il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione... Io soldato, io volontario, io mutilato di guerra, credo di interpretare la volontà di tutto il sano popolo d'Italia proclamando l'annessione di Fiume».

In marzo Mussolini, divenuto direttore de "Il Popolo d'Italia", aveva nel frattempo fondato un movimento nazionalista chiamato Fasci italiani di combattimento, che diverrà nel 1921 il Partito Nazionale fascista. Alla prima riunione in piazza San Sepolcro a Milano, non distante dal Duomo, parteciparono meno di cento persone, tra le quali pochissime personalità eminenti se non Filippo Tommaso Marinetti e Arturo Toscanini, che in seguito divenne però una bandiera dell'antifascismo. Inizialmente i "sansepolcristi" avevano prenotato il Teatro Dal Verme, ma presto si accorsero che sarebbero stati in pochi, ripiegando così per una sala più piccola. Questo sarà però il punto di partenza per l'ascesa del fascismo, che in meno di tre anni arrivò a marciare su Roma minacciando di prendere il potere con la forza.

D'Annunzio, che inizialmente aveva ricevuto la promessa da parte di Mussolini nel sostegno all'impresa, si sentì tradito nel constatare il mancato appoggio, inviandogli una minacciosa lettera a Milano, qui riportata integralmente, ma astutamente pubblicata dal capo fascista dopo opportune modifiche.

«Mio caro Mussolini, mi stupisco di voi e del popolo italiano. Io ho rischiato tutto, ho dato tutto, ho avuto tutto. Sono padrone di Fiume, del territorio, d'una parte della linea d'armistizio, delle navi; e dei soldati che non vogliono obbedire se non a me. Non c'è nulla da fare contro di me. Nessuno può togliermi di qui. Ho Fiume; tengo Fiume finché vivo, inoppugnabilmente.
E voi tremate di paura! Voi vi lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abbietto truffatore che abbia mai illustrato la storia del canagliume universale. Qualunque altro paese - anche la Lapponia - avrebbe rovesciato quell'uomo, quegli uomini. E voi state lì a cianciare, mentre noi lottiamo d'attimo in attimo, con una energia che fa di questa impresa la più bella dopo la dipartita dei Mille. Dove sono i combattenti, gli arditi, i volontari, i futuristi?
Io ho tutti soldati, qui, tutti soldati in uniforme, di tutte le armi. 
È un'impresa di regolari. E non ci aiutate neppure con sottoscrizioni e collette. Dobbiamo fare tutto da noi, con la nostra povertà. Svegliatevi! E vergognatevi anche. Se almeno mezza Italia somigliasse ai Fiumani, avremmo il dominio del mondo. Ma Fiume non è se non una cima solitaria dell'eroismo, dove sarà dolce morire ricevendo un ultimo sorso della sua acqua.
Non c'è proprio nulla da sperare? E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime; e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non vi guarderò in faccia. Su! Scotetevi, pigri nell'eterna siesta. Io non dormo da sei notti; e la febbre mi divora. Ma sto in piedi. E domandate come, a chi m'ha visto. Alalà».

La conclusione dell'impresa fiumana con la firma del Trattato di Rapallo il 12 novembre 1920 da parte di Giolitti, sancì il tramonto politico di d'Annunzio, sebbene rimarrà ancora per molti anni l'uomo più influente della destra. Il trattato, appoggiato anche da Mussolini, stabilì la libertà di Fiume, decisione a cui naturalmente si opposero i dannunziani. Il governo di Giolitti decise quindi di intervenire con la forza nel cosiddetto "Natale di sangue".
Il declino politico di d'Annunzio coincise dunque con la presa del potere di Mussolini, che dovette però liberarsi della figura ingombrante del poeta, costantemente al centro delle attenzioni dei fascisti che vedevano in lui un perfetto condottiero. Due noti fascisti come Dino Grandi e Italo Balbo, per esempio, si recarono più volte dallo scrittore per chiedergli di prendere il comando del movimento, ma egli rifiutò. La politica per d'Annunzio, esteta raffinato, rappresentava esclusivamente un'occupazione secondaria a cui si dedicò solo per l'entusiastico e glorioso senso nazionalistico. Probabilmente inadatto alla politica di ogni giorno, il poeta era però sicuramente una figura affascinante, dalla quale tutti sognavano di essere guidati, ma fu lui stesso a farsi da parte deluso dall'impresa fallita e dalla cattiva imitazione che i fascisti facevano di lui. Alla fine prevalse il duce dallo sguardo ipnotico, l'uomo del popolo, lo "sbandato", come si definì lui stesso, alla guida di un paese totalmente allo sbando.

Così la mattina del 30 ottobre Mussolini salì al Quirinale, incaricato dal re di formare un nuovo governo. Ciò che si può forse recriminare a d'Annunzio, che mai si iscrisse al Partito fascista, è la mancata opposizione al regime, preferendo isolarsi al Vittoriale degli Italiani in una sorta di celebrazione di se stesso.
«A tutti i politicastri, amici o nemici, conviene dunque ormai disperare di me. Amo la mia arte rinovellata, amo la mia casa donata. Nulla d'estraneo mi tocca, e d'ogni giudizio altrui mi rido».

La decisione di questo esilio volontario potrebbe essere stata presa anche a seguito di un misterioso episodio di cui, probabilmente, non si saprà mai la verità. Poco prima della marcia su Roma, infatti, quando manifestava più che mai un senso di ostilità al fascismo, il poeta rischiò la vita cadendo da una finestra della sua villa. Questo episodio, divenuto celebre come "il volo dell'arcangelo", accadde curiosamente due giorni prima di un incontro, fissato per il 15 agosto 1922, a cui avrebbero dovuto partecipare l'ex Primo ministro Francesco Saverio Nitti, Mussolini e d'Annunzio. Si pensava infatti ad un governo di alleanza nazionale al fine di arginare il pericolo del fascismo. Nitti era stato al governo durante l'occupazione di Fiume, lasciando poi il potere a Giolitti, oppositore dell'impresa, ed era stato un acerrimo rivale dello scrittore. Nonostante ciò Nitti andò incontro a d'Annunzio ritenendo fondamentale unire le forze per porre fine alla violenza squadrista, contrastando i pericolosi ideali che si manifestavano nelle folle, riconducendo il paese verso i veri valori di libertà e democrazia. L'incontro però, che avrebbe forse potuto cambiare la direzione dell'imminente futuro, non avvenne mai; si parlò di incidente, ma qualcuno iniziò a sospettare dell'intervento fascista.

Interessante è anche il fatto che Mussolini scrisse immediatamente al Vate una volta compiuta la marcia su Roma, che secondo alcuni studiosi fu astutamente anticipata di qualche giorno per il timore che il 4 novembre, anniversario della vittoria della guerra, il poeta, invitato nella capitale per presenziare alle celebrazioni, avesse potuto bloccare con una sua manifestazione l'avanzata dei fascisti.
«Mio caro Comandante, abbiamo dovuto mobilitare le nostre forze per troncare una situazione miserabile. Non vi chiedo di schierarvi al nostro fianco, il che ci gioverebbe infinitamente, ma siamo sicuri che non vi metterete contro questa meravigliosa gioventù che si batte per la Vostra e la Nostra Italia».

Il regime decise poi di pubblicare l'opera omnia dell'autore, risolvendo in questo modo definitivamente i problemi finanziari che attanagliavano lo scrittore sin da giovane. Il duce cercò così di relegare sempre più la figura del Vate, contribuendo alle spese per i lussi del Vittoriale e facendone un simbolo inoffensivo. Scriverà di lui: "d'Annunzio è come un dente guasto: o lo si estirpa o lo si ricopre d'oro" .

Un'altra occasione che ebbe d'Annunzio per scalzare Mussolini avvenne il 10 giugno 1924 con l'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, di cui il duce si assunse la piena responsabilità morale. Con l'uccisione del suo ultimo nemico, che ancora si alzava coraggiosamente in piedi contro il regime, il fascismo perse definitivamente l'innocenza e cominciò il suo periodo più tragico e buio, con il governo che attraversò una crisi profonda.

Matteotti in una foto scattata poco prima dell'omicidio.

Ancora una volta Mussolini riuscì a salvarsi perché le politiche antifasciste erano deboli e non seppero sfruttare politicamente la situazione. Non si sa se fu davvero Mussolini ad incaricare qualcuno di catturare ed uccidere Matteotti; certo è però che dopo l'ultimo discorso di denuncia in parlamento da parte di Matteotti, Mussolini uscì infuriato e di fronte a più di un testimone affermò che era assurdo che un uomo come lui circolasse ancora sulla scena politica.
D'Annunzio fu letteralmente sconvolto dall'accaduto, che definì una "fetida ruina"; in molti invocarono il suo intervento risolutivo e pacificatore, ma il poeta rimase fermo, ancora una volta rinchiuso nella propria malinconia e più che mai indignato da come i fascisti avessero mal interpretato le sue gesta.

Più avanti d'Annunzio tornò ad interessarsi di politica durante le imprese coloniali, che sostenne con il solito furore patriottico, ma fu nuovamente deluso quando il duce si avvicinò alla Germania nazista. Scriverà allora varie lettere al Capo del governo esprimendo tutti i suoi sentimenti di perplessità per l'alleanza con Hitler, definendolo un "pagliaccio feroce". Il poeta auspicava invece una collaborazione con la Francia, di cui amava la cultura, dove visse per molti anni all'inizio del secolo. Ancora una volta Mussolini ascoltò solamente se stesso abbracciando Berlino e le idee di Hitler, in quella che si rivelerà un'amicizia fatale.

L'atto conclusivo della vicenda tormentata tra d'Annunzio e Mussolini si ebbe nel 1937 a Verona, quando il Vate, ormai anziano, si precipitò alla stazione per incontrare il duce, di ritorno da un viaggio trionfale in Germania. Non si sarebbero più rivisti; fu l'estremo e ormai tardivo tentativo di d'Annunzio di scongiurare l'alleanza con i tedeschi.

Il Comandante poeta si spense la sera del primo giorno di marzo dell'anno 1938 a causa di un'emorragia cerebrale mentre si trovava al suo tavolo di lavoro al Vittoriale, proprio alla vigilia della guerra.

Recarsi in un luogo come il Vittoriale degli Italiani è fondamentale per comprendere tutto il suo amore per la nostra patria e la sua figura ancora oggi offuscata dal legame con il fascismo. Ancor di più la lettura dei suoi versi sublimi, distaccandosi mentalmente da questo tumultuoso rapporto, può rivelarsi un'esperienza unica per riscoprire bellezze e sentimenti che spesso rischiamo di dimenticare. Perché d'Annunzio è l'ultimo grande poeta d'Italia, con il quale tutti i letterati, disse Eugenio Montale, devono necessariamente confrontarsi, colui che con le sue parole è stato in grado di unificare la nazione, così come solo Dante fu capace di fare.

Mussolini, che alla morte di d'Annunzio aveva dichiarato di provare un senso di smarrimento e di vuoto, tornerà al Vittoriale nel 1945 in occasione dell'anniversario di morte del poeta. Ormai tutto era perduto e la sua vita politica compromessa; sarà infatti giustiziato solo due mesi dopo.
Forse proprio in questa occasione sentì più che mai vicina la figura dell'odiato e invidiato amico, capendo di non essere mai stato in grado di escluderlo definitivamente, magari rimpiangendo di non aver ascoltato i suoi consigli, sino all'ultimo tentativo di fermarlo da un'alleanza fatale.

Io ho quel che ho donato.

Gabriele d'Annunzio

Note

La foto dell'aereo del volo su Vienna è stata scattata durante la mia visita al Vittoriale degli Italiani nell'agosto 2020.

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