Il romanzo più celebre di Luigi Pirandello, pubblicato a puntate su una rivista nel 1904 è, insieme a La coscienza di Zeno di Italo Svevo, l'esempio migliore della nuova narrativa novecentesca, in cui si intrecciano i temi dell'identità, del doppio, dell'umorismo e della crisi contemporanea dell'io, diviso da una realtà deludente - dalla quale si sente emarginato - e da un'interiorità complessa, lacerata da contraddizioni profonde.
Se in entrambi i romanzi si parte dalla necessità di scrivere, da parte dei protagonisti, la loro vicenda, considerando la letteratura come un tramite a cui confidare le loro esperienze private è tuttavia attraverso la consueta ironia pirandelliana che si ha modo di riflettere sugli aspetti più disparati e universali dell'esistere, da quello della morte - basti pensare che il protagonista dichiara nella premessa di essere morto ben due volte - sino alla sopravvivenza dell'anima dopo la morte e la questione politica.
Il taglio sottilmente ironico, che privilegia la discordanza, la disarmonia, il ridicolo e a tratti l'assurdo è certamente la scelta migliore per porre in risalto l'assurdità dell'esistenza e la crisi dell'uomo contemporaneo che, dichiara Mattia Pascal nella seconda premessa, si sente smarrito e disorientato da quando Niccolò Copernico ha smascherato la finzione di un'umanità al centro dell'universo, rivelando la finitezza e la marginalità dell'uomo nel progetto divino. Si apre così una prima riflessione all'interno della biblioteca per cui lavora Mattia Pascal, che si intrattiene con il suo amico sacerdote don Eligio, dedicatario del manoscritto che Pascal si appresta a comporre, lasciando spazio alla lunga narrazione in flashback, proprio come nel capolavoro di Svevo.- Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche alla letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!
- Oh oh oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
- C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava...
- E dàlli! Ma se ha sempre girato!
- Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m'ha risposto? ch'era una buona scusa per gli ubriachi. [...]
Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità?
Già dalle prime pagine emergono svariati spunti di riflessioni sul senso della vita e del nostro ruolo nel mondo, in un tono quasi leopardiano su come l
a conoscenza spesso ci allontani dalla felicità e, con nostalgie romantiche, su come l'uomo non sia che un granello di sabbia smarrito in un universo che di certo non si cura del suo destino effimero. Eppure un senso nel nostro agire e nelle nostre azioni quotidiane dev'esserci; qualcosa per cui valga davvero la pena esistere, basti pensare che nei secoli l'umanità ha sempre ambito ad una sopravvivenza dell'anima in un aldilà ignoto ma percepito da quando esiste l'uomo. Se tutto ciò fosse solamente un'effimera illusione sarebbe difficile accettarlo. È questo di cui discute Mattia Pascal - trasferitosi a Roma sotto il falso nome di Adriano Meis - insieme al signor Paleari, proprietario della pensione dove alloggia il protagonista.Scusi, non vorrà dir nulla per lei che tutta l'umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l'aspirazione a un'altra vita, di là? È un fatto, questo, un fatto, una prova reale.
- Dicono: l'istinto della conservazione...
- Ma nossignore, perché me n'infischio io, sa? di questa vile pellaccia che mi ricopre! Mi pesa, la sopporto perché so che devo sopportarla; ma se mi provano, perdiana, che - dopo averla sopportata per altri cinque o sei o dieci anni - io non avrò pagato lo scotto in qualche modo, e che tutto finirà lì, ma io la butto via oggi stesso, in questo stesso momento: e dov'è allora l'istinto della conservazione? Mi conservo unicamente perché sento che non può finire così! Ma altro è l'uomo singolo, dicono, altro è l'umanità. L'individuo finisce, la specie continua la sua evoluzione. Bel modo di ragionare, codesto! Ma guardi un po'! Come se l'umanità non fossi io, non fosse lei e, a uno a uno, tutti. E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento, che sarebbe cioè la cosa più assurda e più atroce, se tutto dovesse consister qui, in questo miserabile soffio che è la nostra vita terrena: cinquanta, sessant'anni di noja, di miserie, di fatiche: perché? per niente! per l'umanità? Ma se l'umanità anch'essa un giorno dovrà finire? Pensi un po': e tutta questa vita, tutto questo progresso, tutta questa evoluzione perché sarebbero stati? Per niente? E il niente, il puro niente, dicono intanto che non esiste...
Impossibilitato a legarsi troppo alla famiglia Paleari presso cui alloggia, Mattia Pascal - che nel frattempo comincia a provare un'attrazione per la figlia del padrone di casa, Adriana - si perde sovente in lunghe passeggiate nello scenario romano di fine Ottocento, sotto il pontificato di Leone XIII. Ed è proprio dinanzi alla Basilica di San Pietro, in una sera dai toni decadenti che rievoca le pagine del Piacere di Gabriele d'Annunzio, che il protagonista compie un'ultima riflessione, ricercando il tanto agognato senso di libertà che si scontra, puntualmente, con la sensazione di non esistere e di essere intimamente infelice. Ispirato dal rumore dell'acqua nelle fontane di piazza San Pietro e dal sontuoso colonnato di Gian Lorenzo Bernini, Pascal confida così ad un vagabondo, ironicamente, la sua convinzione riguardo all'infelicità dell'uomo contemporanea, legata al concetto di democrazia. Sono riflessioni estremamente interessanti se si considera l'anno in cui è stato scritto il romanzo, vale a dire il 1904, regnante Vittorio Emanuele III, esattamente vent'anni prima dell'omicidio Matteotti e di quando Pirandello scelse di iscriversi al Partito fascista sostenendo la politica di Benito Mussolini.Andavo, secondo l'ispirazione del momento, o nelle vie più popolate o in luoghi solitari. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l'impressione di sogno, d'un sogno quasi lontano, ch'io m'ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì, tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M'accostai a una di esse, e allora quell'acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità.
Ritornando per via Borgo Nuovo, m'imbattei a un certo punto in un ubriaco, il quale, passandomi accanto e vedendomi cogitabondo, si chinò, sporse un po' il capo, a guardarmi in volto da sotto in sù, e mi disse, scotendomi leggermente il braccio:
- Allegro!
Mi fermai di botto, sorpreso, a squadrarlo da capo a piedi.
- Allegro! - ripeté, accompagnando l'esortazione con un gesto della mano che significava: «Che fai? che pensi? non tu curar di nulla!».
E s'allontanò, cempennante, reggendosi con una mano al muro.
A quell'ora, per quella via deserta, lì vicino al gran tempio e coi pensieri ancora in mente, ch'esso mi aveva suscitati, l'apparizione di questo ubriaco e il suo strano consiglio amorevole e filosoficamente pietoso, m'intronarono: restai non so per quanto tempo a seguir con gli occhi quell'uomo, poi sentii quel mio sbalordimento rompersi, quasi, in una folle risata.
«Allegro! Sì, caro. Ma io non posso andare in una taverna come te, a cercar l'allegria, che tu mi consigli, in fondo a un bicchiere. Non ce la saprei trovare io lì, purtroppo! Né so trovarla altrove! Io vado al caffè, mio caro, tra gente per bene, che fuma e ciarla di politica. Allegri tutti, anzi felici, noi potremmo essere a un sol patto, secondo un avvocatino imperialista che frequenta il mio caffè: a patto d'esser governati da un buon re assoluto. Tu non le sai, povero ubriaco filosofo, queste cose; non ti passano neppure per la mente. Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d'uno solo, quest'uno sa d'esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa, la tirannia mascherata da libertà. Ma sicuramente! Oh perché credi che soffra io? Io soffro appunto per questa tirannia mascherata da libertà... Torniamo a casa!».
