Canto XXVIII

Matelda

Deh, bella donna, che a' raggi d'amore
ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti.

La cantica del Purgatorio, giunta qui verso la conclusione con l'ascesa di Dante all'Eden, si pone come elemento transitorio e in qualche modo di raccordo fra due mondi ultraterreni così contrapposti quali l'Inferno e il Paradiso. Caratteristiche proprie del contesto di questo regno sono certamente l'armonia, le soavi sonorità musicali che pervadono l'aria, infine l'anelito a quella celestiale purezza a cui ambiscono le anime purganti ancora afflitte da una condizione di imperfezione e dal dover subire, per contrappasso, una punizione. Allo stesso modo le figure femminili, altro filo rosso della cantica, alludono al passaggio da una condizione terrena, come può essere la malinconica Pia de' Tolomei del Canto V, alla divina bellezza di Beatrice, che Dante incontrerà nel Canto XXX. Fra loro, così distanti, è posta la misteriosa Matelda, protagonista di questo canto, figura che allude alla perfetta felicità dell'uomo anteriore al peccato originale, guida di Dante verso la purificazione e all'incontro con l'amata.
In un profluvio di fiori, accompagnata da una brezza primaverile e dal dolce rumore delle foglie, Matelda compare d'improvviso alla vista di Dante, accompagnato da Virgilio e da Stazio, mentre in questo vero e proprio locus amoenus, sulle rive di un fiumicello, è intenta a cantare e cogliere fiori variopinti, figura celestiale che ispirerà le immagini femminili di Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio e Agnolo Poliziano, per arrivare sino ai sogni di perfezione dipinti da Sandro Botticelli.
Se da una parte la sua figura riflette la bellezza del creato, anticipando la gentilissima Beatrice, dall'altra Matelda è pervasa di una malinconia che non è insita nella sua persona, ma nella nostra condizione umana. Quando Dante la invita ad avvicinarsi, desideroso di intendere le parole del suo canto e attratto dalla bellezza del suo sorriso, si accorge infatti dell'impossibilità di colmare quei tre passi che li separano, ma allo stesso tempo anche noi avvertiamo un vuoto incolmabile rappresentato dal fiume oltre il quale si trova la donna, ricordo nostalgico della felicità primordiale dell'umano.
La bella donna spiega che il ruscello presso cui è giunto Dante è il Letè, che scaturisce da un'unica sorgente con l'Eunoè. Il primo fiume ha il potere di cancellare la memoria dei peccati commessi, mentre il secondo restituisce, a chi si bagna nelle sue acque cristalline, la memoria del bene compiuto.
Matelda conclude che nel Paradiso terrestre ha avuto origine l'umanità con Adamo ed Eva, in quell'età innocente che gli autori classici descrissero, ispirati in un sogno poetico, come l'età dell'oro. Dante guarda allora Virgilio e Stazio, accanto a lui, che sorridono alle parole della donna.