Piero Chiara

Scrittore tra i più noti nel panorama italiano del XX secolo, Piero Chiara nacque a Luino, sul lago Maggiore, nell'anno 1913. Accostatosi alla letteratura in età matura, il suo stile si sofferma sulla descrizione minuziosa e introspettiva delle vicende del proprio paesino natale, che divengono espressione universale della vita italiana di provincia. Attento ad interessare il lettore e a cogliere gli aspetti maggiormente psicologici dei personaggi descritti, non senza una vena nostalgica, Chiara ha dato vita ad alcuni brevi romanzi di profonda attualità, il cui stile lo innalza ad erede di una letteratura che da Giovanni Boccaccio - citato in apertura del romanzo La spartizione e ripreso nella tematica di una sessualità raccontata con ironia e senza volgarità - giunge sino ai narratori francesi dell'Ottocento, a Moupassant in particolare, ma anche a Italo Svevo. Non bisogna dimenticare infine che, nel 1978, Chiara fu autore di una delle più autorevoli biografie del poeta Gabriele d'Annunzio, a lungo dimenticato negli anni del dopoguerra.

L'opera d'esordio di Piero Chiara - a seguito di una raccolta di poesie i cui versi rivelano già la vocazione narrativa - fu Il piatto piange, edito nel 1962 da Mondadori, il romanzo in cui compare per la prima volta nella letteratura italiana un piccolo paese di frontiera, Luino, così caro allo scrittore e conosciuto in tutti suoi segreti. Ambientato negli anni del fascismo, il libro getta le basi per i futuri racconti, sia quelli che ritraggono con ironico realismo la piccola borghesia di provincia sia quelli che invece si accostano maggiormente al genere del giallo. Tra scherzi, intrecci amorosi e cronaca divertita del mondo luinese, il romanzo si sofferma sulle vicende scanzonate di un gruppo di amici, soliti gozzovigliare e trascorrere le loro notti tra il gioco d'azzardo o le case d'appuntamento, sino a quando arriverà la Seconda guerra mondiale, travolgendo nel modo più tragico la quotidianità, infrangendo sogni e spensieratezza, al punto da segnare per sempre una generazione del tutto impreparata, specchio del nostro martoriato paese. L'evento catastrofico che pervade sottilmente il romanzo si percepisce in ogni pagina, ma vi si allude solamente, senza che sia mai dichiarato esplicitamente, in un crescendo di inquietudine che rivela una fortunata e consapevole scelta stilistica: «Si cominciava a capire che le carte erano un rimedio, uno scampo a un'inquietudine che premeva sempre più d'intorno e un giorno ci avrebbe presi nel suo giro. Cosa fosse nessuno se lo chiedeva».

A due anni di distanza dal romanzo d'esordio, nell'anno 1964, uscì per Mondadori La spartizione, che nel 1970 sarà adattato al grande schermo con il titolo di Venga a prendere il caffè da noi, una frase decisiva per la struttura del romanzo che permette l'incontro del protagonista, Emerenziano Paronzini - interpretato nella pellicola da Ugo Tognazzi - con le tre sorelle Tettamanzi, entrambe zitelle e rimaste sole a seguito della morte del padre, Mansueto Tettamanzi, il quale, appassionato di botanica e con un bizzarro gusto per l'orrido e il deforme, trascorreva il proprio tempo nel cimentarsi in esperimenti per conferire nuove forme ai propri ortaggi. Quasi come fossero il frutto di tali esperimenti, a seguito dell'unione con una donna rachitica, vennero al mondo tre figlie - Fortunata, Camilla e Tarsilla - connotate ognuna da una caratteristica di assoluta bellezza, ma accomunate da una generale bruttezza che le teneva lontane dagli uomini e da un possibile marito: «Brutte ciascuna a suo modo di una bruttezza singolare, e consapevoli della ripugnanza che ispiravano agli uomini, avevano tacitamente soppresso l'amore, come se l'avessero seppellito in giardino per nascondere una vergogna». Il padre, tuttavia, provava un certo orgoglio per le sue figlie, convinto che: «Tanto il bello quanto il brutto sono frutto di un uguale sforzo creativo e sono qualità raggiunte. E non è che sia facile ottenere una cosa veramente brutta: è difficile come ottenerne una bella. La valutazione dei risultati è una pura questione di gusto. A chi piace una forma, a chi un'altra».
Trasferitosi nel paesino di Luino, Emerenziano Paronzini, «contadino incivilito dalle funzioni pubbliche», è dedito ad un'esistenza tanto monotona quanto priva di eventi, recandosi puntualmente sul proprio posto di lavoro d'impiegato con la caratteristica camminata di ferito di guerra. Siamo infatti negli anni del regime fascista, anche se il tempo, nella serena immobilità di quella località di frontiera, appare essersi fermato all'Ottocento: «Erano gli anni in cui con grande ritardo finiva a Luino, e forse anche in altri posti, l'Ottocento. Il tempo di Garibaldi si era prolungato nelle cose e nelle abitudini, aveva stagnato dentro i cortili e gli orti per una cinquantina d'anni e più portandosi dietro brandelli ancora vivi di Settecento e di Seicento. La guerra "quindici-diciotto", gli aeroplani che cominciavano a circolare nel cielo, le automobili che aumentavano di numero e la moda dei vestiti corti delle donne non avevano cambiato di molto l'atmosfera di una volta».
L'aridità culturale e la chiusura mentale di provincia vengono descritte sapientemente da Chiara, il quale riflette tale staticità nella condizione stessa delle tre sorelle, specchio della vita di paese, oggetto delle malelingue dei compaesani: «Se c'era gente per la quale tutto restava fermo, e ogni valore delle cose e delle parole rimaneva immutato, erano le sorelle Tettamanzi e l'ambiente parrocchiale nel quale vivevano».
Uomo di mezza età descritto in modo grottesco per la mancanza di spicco a livello intellettuale e per il proprio cinismo nel cercare di inserirsi a livello sociale, il Paronzini risulta un personaggio incompiuto che può essere accostato ai più celebri protagonisti della letteratura novecentesca, tra cui lo Zeno Corsini di Svevo. Intenzionato a cercare una donna per sposarsi, il suo obiettivo è quello di accasarsi stabilmente, alla ricerca di un'esistenza se possibile ancor più tranquilla. Per farlo, un sentimento che non risulta necessario è l'amore, del tutto superfluo nel processo quasi di laboratorio con cui avrebbe cercato e creato la propria consorte: «Egli voleva, e se lo voleva ci sarebbe arrivato, estrarre con la pinza delle sue dita di burocrate dal corpo vivo della popolazione femminile del paese la donna ideale. La quale doveva essere né brutta né bella, né giovane né vecchia, piuttosto ricca che benestante, senza troppi parenti, disposta a non aver figliuoli e meglio ancora se impossibilitata ad averne, con casa propria già montata, illibata, di chiesa, d'ottima famiglia. Quanto al carattere poteva essere come voleva: ci avrebbe pensato lui a modellarla».
In parte, le sorelle Tettamanzi rispettavano questi canoni tanto assurdi ma perseguiti con determinazione dal protagonista, un uomo le cui convinzioni, derivate dalle poche letture serali, si rivelano in realtà la maschera di un'insicurezza che ben si esprime nei gesti ripetitivi del proprio insensato agire quotidiano. L'incontro tra Emerenziano e le sorelle avviene in chiesa, nel più classico dei momenti di ritrovo domenicale, quando il paese si ferma per il giorno festivo.
Fortunata è la primogenita, di quarant'anni circa, connotata da una folta capigliatura che, se sciolta, le sarebbe arrivata sino ai piedi; Camilla ha invece delle mani bellissime e delicate, proprie di una musicista. La più piccola, ma non di statura, è Tarsilla, la cui caratteristica più evidente sono le lunghe gambe che sovente sono state oggetto di sguardi indiscreti. Sarà lei ad interagire per prima con Emerenziano a causa di una faccenda economica, con il protagonista che coglierà l'occasione per aiutare le tre donne accedendo in tal modo nell'intimità della loro dimora, denotando fiducia e gentilezza.
L'invito da parte di Tarsilla a recarsi a prendere il caffè scuote improvvisamente la quiete delle altre due sorelle, quasi sgomente nell'apprendere la notizia che un uomo sarebbe stato ammesso tra le mura della residenza paterna.
Il momento del ritrovo intorno al tavolo è più volte centrale nel romanzo, permettendo al protagonista di appropriarsi del ruolo di nuovo capofamiglia alla ricerca di quella tanto ambita stabilità economica. Sarà Camilla, alla fine dell'incontro, ad invitare nuovamente l'ospite per la domenica successiva.
Tarsilla è la prima, invece, a manifestare un risveglio dei suoi desideri più profondi e repressi ancor prima dello sconvolgimento generato dall'ingresso di Emerenziano nella sua vita, concedendosi ad un giovane paesano di nome Paolino, il quale la osserva dall'ingresso del suo piccolo negozio di oggetti casalinghi. Per dichiararsi, Paolino si rivolge a Tarsilla dicendole: "Mi piaci tutta", una frase che nella sua sinteticità esprime il riunirsi di un corpo frammentato le cui caratteristiche più belle sono state ingiustamente "spartite" tra le altre sorelle, come se agli occhi del giovane non vi fossero solamente quelle gambe lunghe e prosperose, ma una bellezza unica e desiderabile nella sua totalità.
Inaspettatamente Emerenziano, che ha incontrato per prima Tarsilla e sembra confidarsi maggiormente con Camilla, si dichiara a Fortunata, la maggiore, la quale decide di prendersi dei giorni per pensare all'idea del matrimonio, sino a quel momento solamente un'ipotesi tanto remota, scegliendo infine di invitare il pretendente al pranzo domenicale, sebbene solo in qualità di amico, ma introducendolo in tal modo definitivamente a casa.
Durante il pranzo avviene l'episodio memorabile della mela, uno dei tanti riferimenti alla natura per esprimere la condizione delle tre sorelle, nonché chiara allusione al titolo. Terminato il pasto e giunto il momento della frutta, Emerenziano: «dall'alzata di porcellana sulla quale troneggiavano mele e pere, tolse una mela e la pelò tutta in tondo facendo un solo nastro di buccia. La mela era marcia per due terzi. Il Paronzini fece un cuneo del terzo buono e lo posò sulla tovaglia; poi prese un'altra mela, che una volta sbucciata apparve anch'essa marcia per due terzi. Ripeté l'operazione di prima, mentre le sorelle lo guardavano in silenzio. Prese poi una terza mela, e benché fosse marcia solo per metà, tolse dal buono quanto bastava a comporre una mela intera con l'aggiunta dei due terzi che aveva messo da parte. Posò poi il coltello e con le mani mise insieme le tre parti e si guardò intorno. Il risultato era quasi perfetto».

Il figlio dell'uomo - René Magritte - 1964

Ormai era giunto, per il Paronzini e Fortunata, il momento di annunciare la loro relazione alle due sorelle. Emerenziano non perde tempo, nonostante l'amata lo pregasse di attendere: «Ritenetemi il fidanzato della signorina Fortunata». Alla notizia Camilla e Tarsilla reagiscono con stupore e un moto di felicità che subito mutano in collera invidiosa, mentre Fortunata, una volta congedato il Paronzini, cerca di giustificarsi al cospetto delle sorelle.
Il matrimonio è celebrato nella chiesetta di San Carlo alla presenza di pochissimi invitati e per il viaggio di nozze i due novelli sposi si recano a Roma, grazie ad un biglietto gratuito con cui il governo di Benito Mussolini era solito premiare le nuove coppie che rafforzavano la razza. Nell'Urbe si recano in visita da papa Pio XI Ratti e a vedere il Foro Romano, il Colosseo, il Vittoriano e Palazzo Venezia, la sede del potere mussoliniano.
Nonostante la breve durata del viaggio, Fortunata torna a casa stanca e timorosa, quasi spaventata, probabilmente - pensava Tarsilla - a causa dei rapporti avuti con il marito. Fortunata, ammalatasi, è costretta a rimanere a letto dal dottore, che le raccomanda assoluto riposo. Il Paronzini decide allora di trasferirsi a dormire nello studio del povero Tettamanzi.
Una sera prega la cognata Tarsilla di accompagnarlo per una breve passeggiata, facendo lo stesso il giorno seguente con Camilla. Terminata la passeggiata con Tarsilla, Emerenziano la invita in camera sua per la notte stessa. Nonostante la guarigione della moglie, il Paronzini decide di continuare a dormire nello studio, al solo scopo di poter uscire di nascosto e recarsi nell'altra stanza, scoperto una sera dalla anziana domestica Teresa. Lo stesso avviene poco dopo con Camilla, la più romantica delle tre sorelle, dicendole di aver finto nel corteggiare Fortunata solamente per arrivare a lei. Emerenziano è riuscito così a sedurre anche Camilla, trascorrendo la notte insieme a lei, ma trovandosi costretto, d'ora innanzi, a stabilire un ordine ben preciso per soddisfare ognuna delle tre sorelle, sempre sotto lo sguardo stupito della domestica: «Quella notte il povero Mansueto Tettamanzi si rivoltò per la terza volta nella tomba, ma per la soddisfazione, non per il dispetto. I suoi frutti, l'uno dopo l'altro, erano maturati ed erano stati colti proprio in grazia di quella forma che lui gli aveva trasmessa impavidamente».
Impegnato quotidianamente con ognuna delle tre sorelle in quella tanto desiderata quiete familiare trasformatasi in faticoso esercizio, Emerenziano, una notte, è colto da un malore improvviso. Venuto a mancare per lo sforzo con il quale accontentare ognuna delle tre donne, delle quali aveva risvegliato le passioni più intime, Emerenziano, «bruciato come un razzo colorato in una notte di sagra», viene compianto dalle sorelle, che, silenziose complici probabilmente consapevoli di quelle avventure notturne, si ritirano così nella loro senilità vivendo nel ricordo del caro defunto.
Il libro si conclude dunque con un tono ironico e a tratti malinconico, cifra stilistica tipica della penna di Chiara, prestandosi benissimo all'adattamento cinematografico per quello studio tanto attento, da parte dell'autore, della mentalità bigotta di paese, nonché dell'egoismo, dell'ipocrisia e dell'astuzia del protagonista, sentimenti che si uniscono alla tematica del risveglio di una sessualità repressa trattata con la consueta eleganza insita nello scrittore.

Sottilmente piscologico e maggiormente misterioso è il romanzo del 1976 La stanza del vescovo, nella cui sceneggiatura cinematografica ritroviamo Ugo Tognazzi nel ruolo di protagonista. Il contesto, negli anni del secondo dopoguerra, è nuovamente quello del Lago Maggiore, questa volta narrato in prima persona da un giovane trentenne tornato dalla Svizzera e intenzionato a trascorrere un periodo di vacanza a bordo della sua imbarcazione di nome Tinca. Un giorno, attraccando la sua barca, incontra l'avvocato Temistocle Mario Orimbelli, un uomo di mezza età anch'egli reduce di guerra e apparentemente molto interessato alla barca. Dall'incontro cominceranno una serie di vicissitudini per il narratore, introdotto nella villa della moglie dell'avvocato, la signora Cleofe Berlusconi, sposata solo per interesse.
Di primaria importanza si rivela ancora una volta il momento di riunione attorno al tavolo per il pasto, quando l'Orimbelli ricorda le sue avventure di guerra in qualità di ufficiale del Regio Esercito, dapprima in Africa e poi a Napoli, racconti a cui la moglie non sembra dare particolare importanza, alimentando nel lettore la sensazione che siano delle pure invenzioni.
Il narratore è particolarmente colpito e affascinato dalla figura di Matilde, cognata dell'Orimbelli, sposata per procura con il fratello di Cleofe, il quale non è mai tornato dalla guerra in Etiopia.
I misteri della famiglia si infittiscono quando l'Orimbelli insiste nel trattenere l'ospite a dormire, facendolo accomodare nella stanza più confortevole della villa - da cui prende il titolo il romanzo - appartenuta ad un prozio di Cleofe, vescovo e Nunzio Apostolico in varie parti del mondo, trovato morto affogato nella darsena dinanzi alla villa, dove era solito trascorrere il periodo estivo. L'avvocato mostra all'ospite le reliquie del defunto e in particolare un armadio contenente ancora i paramenti del religioso.
Il mattino seguente il giovane lascia la villa per farvi ritorno due giorni più tardi, come promesso all'avvocato, che gli chiede di poter salpare insieme a lui. Pur cercando di persuaderlo, avendo un appuntamento amoroso, non riesce a liberarsi facilmente dell'invadente e singolare personaggio, che, approfittando della presenza di una donna anche per lui, si rivela un uomo di compagnia con cui potersi divertire. Si capisce già da qui che in qualche modo la villa eserciterà una sorta di enigmatica attrazione per la vicenda e il percorso del personaggio: «Andando via quella mattina dopo aver dormito saporitamente nella camera del Vescovo, mi sembrava di assentarmi quasi abusivamente, tanto sentivo ormai di far parte, dopo due sole visite, di quella strana famiglia».
Libero dalla presenza della moglie, l'avvocato appare spensierato e sincero, tuttavia man mano il narratore viene a conoscenza di alcune maldicenze sul suo conto da persone che lo conoscono da più tempo. In alcuni momenti l'Orimbelli sembra allora mutare il suo allegro temperamento in un ripiegarsi malinconico nei propri intimi pensieri che lo portano a versare anche qualche lacrima, come segnato dal proprio passato, in un'esistenza che poteva essere serena, ma che si rivela quanto mai tormentata ed inquieta: «Meglio di così, l'Orimbelli non poteva capitare. Ed era spiegabile che non sentisse nessun desiderio di tornare a Milano e di mettersi a un lavoro qualsiasi. Nella vita aveva buon letto, buona cucina, aria balsamica, pace e comodità. Gli mancavano forse solo le donne, dal momento che sua moglie era evidentemente fuori discorso. [...] Un signore tanto distinto, e in fondo così sazio di vita avventurosa da far pensare che per lui non vi era nulla di più desiderabile del riposo. Quel lungo, ininterrotto riposo, che gli uomini usciti dalle guerre sembrano agognare come un rimedio alle loro nascoste ferite o come un salutare intontimento, dentro il quale nascondersi per il resto della vita».
Anche se si nota un moto di pietà da parte dell'io narrante, bisogna dire che l'Orimbelli non mostra alcuno scrupolo nel corteggiare le donne che li vengono presentate dal nuovo amico, al punto che, quando questi mostra un interesse per Matilde, una sera decide di avvertirlo della loro relazione segreta che hanno instaurato ormai da un po' di tempo, così da anticiparlo negli intenti. La menzogna riesce nell'intento di portare Matilde dalla sua parte, rimanendo delusa quando nella successiva uscita in barca il giovane la ignora per rimanere con una sua amica, lasciandola sola con il cognato.
Nella stessa gita, durante un pranzo, il gruppo viene a sapere della morte della signora Cleofe, trovata annegata nella darsena. Durante le indagini e gli interrogatori, il narratore è assalito da un dubbio, ossia l'aver visto l'Orimbelli uscire in bicicletta la sera del delitto, ma, confidandosi con Matilde, gli viene chiesto di non dire nulla, come se la donna fosse divenuta complice del cognato, il cui alibi sembra reggere. Pur riuscendo ad avvicinarsi a Matilde, per il narratore cresce il sospetto che sia stato proprio il suo sentimento per la donna a spingere l'avvocato ad agire, escogitando l'omicidio in modo che - a seguito della morte della moglie - avrebbe potuto sposare Matilde.
Il matrimonio tra l'Orimbelli e Matilde, alla presenza di pochissimi invitati, viene celebrato in una cappella laterale della basilica di Sant'Ambrogio a Milano, mentre le indagini vengono archiviate come caso di suicidio.
I novelli sposi, a seguito del viaggio di nozze, vivono un periodo di malinconica monotonia presso la villa sul lago, mentre l'Orimbelli comincia a confidare un sottile turbamento che prova nell'animo, inquieto forse per il delitto commesso: «Sono stato troppo amato. [...] Non dico da mia moglie, poveretta, che mi odiava... Ma quanti cuori ho conquistato! Eppure ora mi domando, caro amico, dove è andato a finire tutto quell'amore. Possibile che si sia dissolto come una nebbia? E l'amore che ho dato io? Dissolto anche quello? [...] L'amore per me è un fluido, un'erogazione, un'ectoplasma che esce dal mio corpo. Eppure non ne trovo più nemmeno la traccia, in me».
A riaprire ogni ipotesi di omicidio sarà l'arrivo inaspettato del marito di Matilde, l'ingegner Berlusconi, di ritorno dall'Etiopia, creduto morto da tutti ad eccezione dell'avvocato, il quale sapeva che era stato catturato ed evirato dai guerrieri etiopi, scegliendo di non fare più ritorno per la vergogna. Avendo ricevuto una lettera dalla sorella Cleofe, che lamentava lo strano comportamento del marito, l'ingegnere aveva voluto farle visita, preoccupato degli intrighi del cognato, che ora accusava senza alcun dubbio dell'omicidio, commesso per impossessarsi dell'intero patrimonio familiare.
A questo punto il narratore decide di rivelare di aver visto l'Orimbelli in bicicletta la notte dell'assassinio. L'avvocato, scoperto, decide di togliersi la vita impiccandosi nella stanza del vescovo.
A morte avvenuta - ed è questo un elemento di estrema importanza perché in contrasto con la pellicola - viene aperto un baule che l'Orimbelli custodiva nella stanza del vescovo, contenente i ricordi di una vita. L'apertura avviene nel film prima che il protagonista si tolga la vita, ponendo in relazione il personaggio - nella sua complessa personalità di uomo che non ha mai superato la guerra - con il contenuto, in un aspetto drammaturgico della sceneggiatura assente invece nel romanzo. All'interno gli agenti trovano cimeli quali armi da fuoco e pegni d'amore, tra oggetti di guerra conservati come trofei e lettere che hanno un valore solo per il defunto, ma che non possono essere compresi dai presenti.
Seppellito l'Orimbelli a Milano, nel cimitero di Musocco, il narratore e Matilde si soffermano a pranzo in città, in viale Certosa, per poi ritrovarsi in villa qualche giorno dopo; i due potrebbero iniziare finalmente una relazione, ma le loro vie prenderanno due strade separate.
Dinanzi a due possibilità, a due immagini contrastanti, il giovane, ritrovatosi per caso in quella burrascosa vicenda, deciderà infatti di riprendere la strada del lago, inseguendo il proprio desiderio di libertà. Se da una parte aveva visto la vita con Matilde, divenuta proprietaria della villa donatale dal Berlusconi, nello stesso momento non aveva potuto fare a meno di notare come la donna, seduta in poltrona nel giardino, ricordasse nella figura l'austera signora Cleofe, mentre lo scrittore si sofferma sull'immagine delle scarpe tanto strette della giovane donna, come ad alludere a una vita che non avrebbe fatto per lui. Dall'altra si staglia invece la maestosità del lago, nelle sue infinite possibilità. Il richiamo ad un nuovo porto, in cui cercare finalmente la serenità economica e di affetti, era troppo forte in lui che, come tanti altri in quegli anni del dopoguerra, facevano fatica a lasciarsi alle spalle un periodo alquanto doloroso, tema ricorrente nella poetica di Chiara.
Il romanzo volge al termine rapidamente, in poche battute, per spiegare concretamente la fine di un rapporto che già non esisteva più e non aveva nulla da aggiungere. Al giovane, venduta la barca, non resterà che portare nel cuore quell'incontro e ripensare, qualche volta, al mistero della villa sul lago.

Sempre legato allo scenario di Luino, punto di arrivo e di partenza del percorso del protagonista, ma ambientato nelle caotiche vie parigine degli anni Cinquanta, è infine il romanzo del 1978 Il cappotto di astrakan, edito per Mondadori, con il quale Chiara affronta i temi del viaggio, che coinvolge il personaggio principale, e del doppio, ossia del sosia che genera scompiglio nel quieto vivere, così come carico di insidie si rivela lo spostamento stesso dalla piccola realtà lacustre - ben nota e familiare - alla grande metropoli con tutte le sue realtà da scoprire. Da sottolineare è la presenza di Johnny Dorelli nella sceneggiatura dell'omonimo film uscito l'anno seguente al libro, in un'interpretazione magistrale per espressività, eleganza e malinconica ironia che rivela una sorta di rassegnazione agli eventi.
Piero, un uomo sulla quarantina dedito ad una vita spensierata il cui passatempo preferito è il gioco del biliardo con gli amici, decide di tornare a Parigi, per dare una svolta alla propria esistenza, nonostante non avesse un bel ricordo della città dove già era stato anni prima finendo coinvolto in una rapina. Si capisce sin da subito l'idea dell'autore di rappresentare ironicamente la classica situazione di un italiano all'estero, a tratti spaesato e presto vittima di un tragico episodio a causa della propria ingenuità che traspare anche nella decisione stessa di fare ritorno in quella città, come spinto da un desiderio di riscatto: «Andare a Parigi era a quell'epoca, ed è stato sempre, come darsi a un mestiere, a una professione o a un corso di studi. Vivere in quella gran città voleva dire imparare, capire il mondo, fiutare il vento. L'avervi passato qualche anno e magari soltanto qualche mese, poteva dare gloria per tutta la vita anche a un tipo qualunque, solo che avesse saputo raccontare le sue gesta, immancabili, perché nessuno poteva vivere a Parigi senza capitare dentro casi e vicende degne di venir raccontate».
In cerca di un alloggio, Piero conoscerà la signora Lenormand, una vedova di costituzione robusta e di una certa età che decide di affittargli la stanza che era di suo figlio Maurice, come colpita da quell'incontro, non essendo infatti solita introdurre ospiti in casa. Piero si troverà a convivere con i libri e gli scritti di Maurice, uno studioso di letteratura interessato anche alle scienze, scoprendo man mano una personalità complessa che spazia dagli studi filosofici alle teorie e alle invenzioni più bizzarre. Costretto a condividere la stanza con il gatto Domiziano, Piero trascorrerà intere giornate alla scoperta del passato del figlio misterioso, fuggito di casa - secondo la madre - a causa di un'infatuazione per una giovane ragazza indocinese.
Visitando le vie della città, una sera Piero è colpito dalla sagoma di una donna che intravede da una finestra, per la quale nutre, più che un trasporto, una curiosità che si lega anche alla voglia puerile di poter raccontare qualche storia agli amici una volta fatto ritorno dal viaggio. Così, a seguito di numerosi appostamenti, Piero riesce a conoscere e ad entrare in confidenza con la ragazza, di nome Valentine. I due si incontrano alla sera o nel fine settimana per delle passeggiate in cui Valentine accompagna Piero per la città, attraverso le sue bellezze, mente il protagonista le racconta delle sue storie di paese e dei luoghi dove vive.
Intenzionato a rientrare in Italia, anche solo per il sopraggiungere della fredda stagione e la mancanza di vestiti adeguati, Piero è trattenuto dalla vedova Lenormand, che si offre di prestargli gli indumenti del figlio, dalle mutande di lana alle magliette più pesanti sino ad un cappotto di lusso a cui Maurice teneva particolarmente. Una volta indossato il cappotto di astrakan, la Lenormand confesserà di averlo ospitato per l'incredibile somiglianza con suo figlio Maurice, ma la stessa Valentine appare reagire in modo strano vedendolo con quell'abito, domandandogli dove lo abbia preso. Anche la ragazza si è infatti avvicinata a Piero per la somiglianza con Maurice, con il quale ha avuto una relazione. Il loro amore, rivela la donna, era stato tuttavia interrotto da una rapina che aveva commesso il fidanzato insieme a degli amici, mostrando un lato oscuro e inimmaginabile del suo carattere.
Deluso dall'essere stato circondato da affetto per una semplice somiglianza e per la presenza di un sosia di cui viveva ancora forte il ricordo, Piero appare rassegnato nel tornare a Luino, ma di notte Maurice, evaso dal carcere, irrompe in casa della madre, scoprendo con rabbia che nel suo letto dorme un altro uomo. Recatosi da Valentine per rapirla, i due fuggono per tre giorni, sino a quando due camionisti riconosceranno il fuggitivo dalle foto sui giornali. Denunciato alla polizia, Maurice è arrestato e costretto nuovamente ad anni di galera.
Trascorso del tempo Valentine, che aveva dichiarato il proprio amore a Piero e l'intenzione di seguirlo in Italia, si reca a Luino, dove il protagonista ha ripreso la quotidianità insieme agli amici di una vita. Giunta nel bar della piazza, per lo stupore degli amici e dello stesso Piero, Valentine si ricongiunge con l'amato e i due vivono dei momenti di sincera passione.
Cercando chiarimenti dalla donna riguardo alla fuga e sul suo reale sentimento, forse mai spento, per Maurice, Piero comincia ad essere perseguitato da alcuni dubbi sulla loro relazione, così, con la scusa di un'occasione di lavoro capitata a Valentine, i due si separano senza particolari spiegazioni e senza chiarire effettivamente quanto accaduto.
Piero, come in un'incapacità di aprirsi e fidarsi di qualcuno, affida i suoi turbamenti e le sue domande ad una lunga lettera che spedisce a Valentine appena dopo la sua partenza in treno. Apparentemente senza particolari rimorsi, Piero torna così alla vita di ogni giorno, lasciando tuttavia una sensazione di malinconia al lettore per il suo essersi rassegnato al ruolo di personaggio secondario, come a voler essere Maurice - la sua parte migliore - ma denotando l'incapacità nel vivere come lui, quasi che il vero protagonista, nonché il vincitore della storia, fosse proprio il suo sosia.

Bibliografia

  • Il piatto piange - Piero Chiara - Mondadori
  • La spartizione - Piero Chiara (introduzione di Carlo Bo) - Mondadori
  • La stanza del vescovo - Piero Chiara - Mondadori
  • Il cappotto di astrakan - Piero Chiara - Mondadori
  • Vita di Gabriele d'Annunzio - Piero Chiara - Mondadori
  • Invito alla lettura di Piero Chiara - Enrico Ghidetti - Mursia