Igino Ugo Tarchetti

La scapigliatura milanese

La Scapigliatura fu un movimento letterario e artistico che si diffuse in Lombardia e in Piemonte nella seconda metà del XIX secolo, negli anni appena successivi all'unificazione nazionale. Il termine "scapigliatura" corrisponde al francese "bohème" e si riferisce alla vita irregolare dei suoi principali esponenti, divisi fra uno spirito di rinnovamento letterario e un'incolmabile disperazione esistenziale.
L'atteggiamento ribelle degli scapigliati era conseguenza dell'emarginazione dell'artista, il cui ruolo non era più riconosciuto all'interno di una società frenetica che aveva conosciuto l'industrializzazione e che stava per entrare nella Belle Époque. Le tematiche scapigliate - riprendendo il maledettismo francese di Paul Verlaine e Charles Baudelaire - aprirono la strada alla stagione del decadentismo di fine Ottocento, per questo la Scapigliatura è da circoscrivere ad un periodo decisamente breve - tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo - come breve fu l'esistenza dei suoi protagonisti.
La ribellione degli artisti scapigliati era vissuta con una disperata coerenza che non prevedeva un semplice atteggiamento anticonformista, bensì la personale consunzione fisica - con la forte suggestione di mescolare arte e vita - proprio come fu per Tarchetti, vissuto appena trent'anni. Lo stesso accadde ad Emilio Praga, colui che scrisse il manifesto del nuovo gruppo letterario, ma anche a Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti), il quale, trovato morto in una stalla avvelenato dall'assenzio, fu il più milanese tra gli scapigliati nonché il primo ad utilizzare il termine "scapigliatura"; vanno inoltre ricordati Carlo Dossi e Arrigo Boito, quest'ultimo noto per essere stato librettista di Giuseppe Verdi. Bisogna infine citare il compositore Giacomo Puccini, che durante la giovinezza fu vicino al mondo scapigliato, mentre in ambito artistico il pittore Tranquillo Cremona.
Quando si parla di scapigliatura milanese non si deve pensare ad un gruppo omogeneo e con regole precise - che sarebbe difficile immaginare date le premesse che caratterizzavano questi artisti eccentrici e irregolari - bensì ad uno stile di vita e a una serie di ideali comuni che vanno dal rifiuto della società contemporanea e del modo accademico di concepire un'opera d'arte come in quello legato sviluppo industriale e al positivismo di metà Ottocento, che guardava con fiducia al progresso scientifico e tecnologico. A livello letterario i poeti non potevano dunque essere più lontani che dal classicismo di Giosuè Carducci e da un modello imprescindibile milanese come Alessandro Manzoni, in una posizione contraria al Romanticismo italiano, ma non a quello europeo inteso come analisi delle inquietudini e della psicologia umana.
La città di Milano fu il cuore della Scapigliatura, con gli imminenti sviluppi industriali ed economici che l'avrebbero resa una protagonista all'avanguardia tra le metropoli europee, tuttavia la Lombardia aveva inizialmente risentito negativamente dell'unificazione nazionale, in quanto vide sminuito il proprio ruolo dal punto di vista politico e amministrativo, subendo gli effetti della "piemontesizzazione" sotto la corona sabauda. Dal punto di vista economico risentiva della perdita dei legami con il Veneto e con il resto dell'impero asburgico, dovendo dunque attendere e faticare prima di conoscere l'industrializzazione vera e propria ed il futuro sviluppo.

Notturno di piazza del Duomo - Angelo Inganni - 1865 circa

Nato nel 1839 in provincia di Alessandria, Tarchetti era il rampollo di un'agiata famiglia piemontese, ma sin da subito preferì vivere del suo lavoro giornalistico e letterario per quanto incerto. Il nome Ugo lo aggiunse proprio in omaggio a Ugo Foscolo, indicato come capostipite della scapigliatura, a testimonianza di una vocazione che però non riuscì a coltivare se non negli ultimi anni della sua brevissima esistenza, quando fu congedato dalla vita militare per ragioni di salute. Tarchetti visse infatti gran parte dei suoi trent'anni di vita nell'esercito, partecipando ad alcune campagne finalizzate a combattere il brigantaggio nel Mezzogiorno.
Sebbene il tardivo accostarsi totalmente alla letteratura, le potenzialità espressive di una scrittura modernissima e la ricchezza di un'acuta sensibilità emergono chiaramente nei pochi romanzi che ha lasciato, tutti connotati da una breve lunghezza che li rende dei lunghi racconti. L'esempio migliore è Fosca, il suo romanzo più celebre e riuscito, edito nel 1869 e portato a compimento, a causa della precoce scomparsa, da Salvatore Farina, con il quale Tarchetti aveva instaurato una fraterna amicizia.
La trama prende spunto da una vicenda personale che toccò profondamente Tarchetti quando nel 1865 si recò a Parma per incarichi militari. Qui incontrò una donna, parente di un suo superiore, malata di epilessia e ormai prossima alla dipartita. Il misterioso fascino della giovane, pur essendo malata e sofferente nel corpo, rimase indelebile nella mente dello scrittore, che da questo incontro trasse ispirazione per il personaggio di Fosca. La figura femminile del romanzo, preludio alla letteratura decadente, riassume alcuni temi cari agli scapigliati, come l'attrazione per il brutto ed il deforme, insieme al fascino della malattia e della morte, riflettendo lo stato d'animo dell'autore, tormentato da tristi presagi.
Fosca è in realtà una donna estremamente intelligente e sensibile, avida lettrice che cerca di lenire le proprie sofferenze rifugiandosi nell'immaginazione e nelle illusioni, tuttavia segnata nel corpo dal male che la affligge, sia fisico che piscologico. A lei si contrappone per bellezza la figura di Clara, di cui è innamorato e ricambiato il giovane ufficiale Giorgio, il quale racconta la propria vicenda in prima persona: «Ho avuto due grandi amori, due amori diversamente sentiti, ma ugualmente fatali e formidabili. È con essi che si è estinta la mia gioventù; è per essi. [...] Più che l'analisi d'un affetto, più che il racconto di una passione d'amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. - Quell'amore io non l'ho sentito, l'ho subito». Clara è una donna sposata che Giorgio incontra a Milano, della cui passione il militare racconta nelle pagine felici che aprono il romanzo, connotate anche da un senso di desiderio fisico a cui si oppongono le pagine sofferte e cupe, drammatiche, nelle quali viene spiegato il rapporto perverso venutosi a creare tra lui e Fosca. Inviato nella guarnigione di un piccolo villaggio - contrapposto alla città - Giorgio è agli ordini di un colonnello che ospita a casa la cugina Fosca, descrivendola come «la malattia personificata, l'isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso», riportando le parole riferitegli dal medico che la segue in cura. Inizialmente Fosca rimane nella propria stanza e questo alimenta l'inquietudine di Giorgio nell'udire i suoi lamenti dovuti a delle convulsioni isteriche, ma anche il sottile desiderio di vederla. L'incontro avviene una mattina a casa del colonnello: «Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezza che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze - ché anzi erano in parte regolari - quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d'immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l'esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne' suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati - occhi d'una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta».

Ricordo di un dolore - Giuseppe Pellizza da Volpedo - 1889 circa

Specchio di un'insanabile sofferenza che ha contaminato le sue fattezze, negli occhi di Fosca il giovane protagonista riconosce subito la testimonianza di un triste passato, ma anche una nobiltà d'animo di cui si scoprirà attratto da un sentimento che mai aveva provato e che spesso vorrebbe reprimere. La donna, incapace di sviluppare una malattia tanto forte da esserle fatale, comincia a manifestare un attaccamento smodato nei riguardi di Giorgio, di cui ha compreso l'indole generosa e sensibile, denotando un'urgenza di essere amata e ascoltata, come se un affetto sincero fosse per lei il modo per dimenticare il male, nonché l'unica vera cura: «Qualche giorno vi farò delle confidenze, vi racconterò la mia vita; voi me lo permetterete, non è vero? Ho bisogno del vostro compianto. Avete un'aria così dolce, così buona. Ve lo confesserò: io vi ho veduto fino dal primo momento che siete venuto in nostra casa, vi vedeva tutti i giorni, e non usciva mai dalla mia stanza perché aveva vergogna di voi. [...] Non vi siete che voi che possa capirmi, sopportarmi senza umiliarmi, compiangermi. [...] Ho bisogno di essere conosciuta, capita».
Il personaggio di Fosca manifesta così un bisogno insito in ognuno di noi, suscitando negli animi sensibili dei lettori - come in quello del virtuoso Giorgio - una naturale compassione. Il protagonista deciderà allora di assecondare le richieste del dottore, il quale, capendo subito che la presenza del giovane potrà confortare l'ammalata, gli chiederà di starle accanto quasi servendosi della sua generosità e bontà d'animo: «Essa ha una mente colta, uno spirito delicato e romantico; voi eravate l'uomo fatto a posta; l'ho detto a me stesso appena vi ho veduto: ecco l'uomo! Figuratevi, conosco quella donna da cinque anni. Voi siete un bel giovine, e la bellezza è cosa che si sconta quasi altrettanto come la bontà. Buoni e belli! Guai a coloro che vengono al mondo colla macchia di questo peccato originale!».
Cominciano così alcune pagine in cui Fosca confida il proprio triste passato a Giorgio, che prova sincera compassione nell'apprendere come in gioventù la donna, insieme alla sua famiglia, fosse stata rovinata da un uomo che la sposò per ingannarla e rubarle la dote, ma contemporaneamente il giovane ufficiale avverte anche il naturale desiderio di tornare a Milano e vivere un'esistenza serena, sentendosi ormai succube di quella figura che, quasi come una donna-vampiro, lo trascina negli oscuri abissi della follia manifestando insensati moti di gelosia nei riguardi di Clara, esasperandolo con continue domande o richieste e scoppiando in veri e propri deliri ad ogni piccola preoccupazione.
Sarà il dottore, preoccupato per le condizioni di salute mentali e fisiche del militare, a consigliargli di interrompere quella malsana relazione cui egli stesso l'aveva indotto. Giorgio, come incapace di allontanarsi da Fosca - arrivando a convincersi che ormai la donna gli abbia attaccato quella sua malattia - sceglierà di rimanergli accanto, ambiguamente attratto e "contagiato" dalla sua presenza, rassegnato nell'impossibilità di essere felice. Trascorrendo un'ultima notte insieme, Giorgio si unirà masochisticamente a Fosca, convinto che ella sia stata l'unica che lo abbia amato sinceramente, finendo per essere contagiato definitivamente da quel male oscuro di cui è afflitta la donna, che non sopravvivrà al momento di passione e di pura felicità, come verrà a sapere Giorgio ricevendo una lettera dal dottore.

Di tema diverso, ma altrettanto originale ed estremamente attuale, è il romanzo Una nobile follia, scritto tra il 1866 e il 1867 ed uscito in appendice al giornale "Il Sole" in ventisette puntate. Incentrato sulla tesi antimilitarista, non stupisce lo scandalo che generò al suo apparire, essendo forte in quegli anni il senso patriottico per l'unificazione nazionale appena raggiunta. Importante è anche il sottotitolo dell'opera, ossia Drammi della vita militare, che dimostra l'intenzione dell'autore di proseguire la narrazione, dando vita ad una trilogia su un tema cui dimostra una notevole urgenza creativa: «Io l'ho scritto per uno scopo [...] e lo raffazzonai in pochi giorni per appendici di giornale - non m'importerebbe gran cosa il raggiungere questo scopo anche a prezzo di qualche errore di forma e di sintassi. Triste la civiltà di quel paese, in cui la letteratura è un'arte e non una missione».
Come in Fosca, ad una prima parte serena e dedicata al ricordo di un sincero legame amoroso, è contrapposta nella seconda parte la narrazione della battaglia senza alcuna censura, in una totale e ferma condanna che non lascia adito ad eroismi o idealità patriottiche di alcun tipo, con l'autore che dichiara convinto la necessità dell'abolizione degli eserciti ed il rifiuto delle armi per far sì che possano concludersi definitivamente i conflitti tra i popoli, sogno, ancora oggi più che mai, che appare così remoto e irrealizzabile.
«Marciano in fila... vestono una livrea... portano al fianco una lama di ferro... hanno delle lastre di metallo da cui fanno uscire dei suoni... maneggiano un'asta di legno con un tubo da cui esce una palla che uccide... Sì, sì, vi dico che quella palla uccide... per il cielo! essa uccide... io l'ho provato..., tratteneteli, fermateli, essi vanno a distruggere degli altri uomini»...

Esercitazioni militari - Giovanni Fattori - 1890

A parlare è il protagonista Vincenzo, che dovrà rinunciare all'amore - di cui le prime pagine descrivono in modo sublime il sorgere del nobile sentimento nel suo animo, in contrapposizione a quelle dedicate agli orrori bellici - in quanto inviato come soldato nella guerra di Crimea, combattuta tra l'esercito russo e l'Impero ottomano, quest'ultimo sostenuto da Francia, Inghilterra e dal Regno di Sardegna. L'episodio descritto è in particolare la battaglia della Cernaia, nella quale Vincenzo ucciderà per errore un giovane soldato nemico di nome Arturo, un fatto che dilania la sua psiche al punto di raggiungere quello stato di "nobile follia" che conferisce il titolo al romanzo. Pur avendo ucciso il rivale involontariamente e per errore - per un inconsapevole istinto di sopravvivenza - Vincenzo non riuscirà più a dimenticare quel triste accadimento, scegliendo come unica via - dopo aver perso anche l'amata segnata da una malattia incurabile - quella del suicidio, in un finale tragico che rispecchia l'insensatezza stessa della guerra, in pagine che sono per noi di importante riflessione per la chiarezza e quanto mai diretta esposizione narrativa.

Sempre Inerente al tema bellico è Storia di una gamba, pubblicato nel 1869, che narra di un combattente volontario nella Terza guerra d'indipendenza, il quale non è si è arruolato per la gloria o per eroismo patriottico, ma in cerca di una morte che ritiene l'unica via possibile e dignitosa per placare la tremenda delusione amorosa per una donna che è amata dal suo migliore amico.
In cerca di un pretesto di morte onorevole, il protagonista vede nel morire la soluzione ad una vita che gli era divenuta impossibile e con coraggio si getta nelle imprese più ardite. Cominciato da poco il conflitto, sente un colpo alla gamba e finisce a terra privo di sensi. Risvegliatosi, si ritrova senza la gamba e decide curiosamente di conservarla in una teca, cifra orrorosa e macabra che è tipica della scapigliatura e in particolare di Tarchetti, traduttore di Edgar Allan Poe. Singolare è anche il prevalere della riflessione sulla sconfitta, sul singolo e drammatico episodio che ha segnato in modo indelebile lo sfortunato combattente, piuttosto che sull'esito vittorioso per l'Italia nella guerra, testimonianza di un'insita infelicità da parte dell'autore e, ancora una volta, di un senso di disprezzo per gli avvenimenti contemporanei.

Riassumono perfettamente la psicologia e lo stile di Tarchetti le poche poesie che ebbe modo di comporre nella sua vita troppo breve e sfortunata, nelle quali si intrecciano ancora una volta, come in Fosca, il tema dell'amore e l'elemento macabro, in una solitudine esistenziale sofferta da parte dell'autore che però è specchio di una lunga tradizione, influenzando notevolmente l'emergere di un nuovo gusto letterario.

Quando bacio il tuo labbro profumato,
cara fanciulla, non posso obbliare
che un bianco teschio v'è sotto celato.
Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
obbliar non posso, cara fanciulla,
che vi è sotto uno scheletro nascoso.
E nell'orrenda visione assorto,
dovunque o tocchi o baci, o la man posi...
sento sorger le fredda ossa di morto!

Il manifestarsi del dolore non impedisce tuttavia all'io lirico - come al giovane ufficiale protagonista in Fosca - di amare sinceramente e sottomettersi volontariamente ad un affetto che può far soffrire, ma che è espressione autentica di quanto di più profondo lega l'esistenza umana - ed in particolare le anime più nobili - vale a dire la comune sofferenza, come se la condivisione della propria sensibilità e il ritrovarsi nel dolore, fosse una carezza nell'inquietudine dell'esistere.

Ell'era così fragile e piccina
che, più che amor, di lei pietà sentia;
d'angioletto parea la sua testina
così diafana ell'era e così pia.
Le orazioni dicea sera e mattina.
Di notte avea paura e non dormia,
piacevanle le bacche di una spina
le chicche, e mi dicea: «dolcezza mia».
Ella era piena di delicatezze,
piangea di tutto e sorridea di tutto,
vivea di zuccherini e di carezze:
eppur quel fior sì frale e delicato
ha la mia forte gioventù distrutto,
ha la saldezza del mio cor spezzato.

Bibliografia

  • Fosca - Igino Ugo Tarchetti (introduzione di Gilberto Finzi; con uno scritto di Carlo Emilio Gadda) - Mondadori
  • Una nobile follia. Drammi della vita militare - Igino Ugo Tarchetti (a cura di Roberto Carnero) - Mondadori
  • Dalla scapigliatura al verismo - Lina Bolzoni; Marcella Tedeschi - Editori Laterza
  • La vittoria macchiata. Memoria e racconto della sconfitta militare nel Risorgimento - Duccio Tongiorgi (a cura di) - Edizioni di storia e letteratura
  • La letteratura e noi. Il secondo Ottocento - Palumbo Editore