Adelchi

Seconda tragedia di Alessandro Manzoni che segue Il conte di Carmagnola, l'Adelchi fu cominciato nell'autunno del 1820 e concluso e pubblicato nel 1822, in un intenso periodo creativo per l'autore milanese, che negli stessi anni compose le odi Marzo 1821 e Il cinque maggio - quest'ultimo a seguito della morte di Napoleone Bonaparte - ma anche la prima edizione del suo capolavoro, I promessi sposi, che ancora presentava il titolo di Fermo e Lucia.
Diviso in cinque anni conservando la struttura della tragedia classica, l'Adelchi è un dramma storico, ma anche epico e tragico, ambientato nel VIII secolo, negli anni fra il 772 e il 774, all'epoca di Carlo Magno, che ben riflette le vicende dell'Italia contemporanea. Le analogie che legano questi periodi storici così distanti sono molteplici - come sarà anche per I promessi sposi, dove la Lombardia seicentesca diviene testimonianza del contesto di inizio Ottocento - basti dire che la tragedia narra dell'oppressione longobarda sui Latini, ossia gli italici, i quali sperano nell'aiuto di Carlo Magno, re dei Franchi, chiamato dal pontefice per proteggerne il proprio potere temporale. Se si pensa che l'Italia manzoniana era sotto il dominio degli Austriaci e fiduciosa nel sostegno dei Francesi, si capisce il motivo della scelta del tema medievale da parte dello scrittore, interessato tuttavia, come sarà anche per il suo romanzo, al problema linguistico, in un'opera pensata per la lettura più che per la rappresentazione teatrale. Se la tragedia italiana - anche negli esempi più vicini di Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo - si serviva di un linguaggio aulico, lontano da quello dell'uso comune e dunque inappropriato nella poetica realistica del vero storico, l'autore si inventò un nuovo linguaggio, che pur servendosi degli endecasillabi sciolti si avvicinava ad uno stile prosastico che attingeva con frequenza a vocaboli del parlare quotidiano.
I due cori dell'Adelchi - a conclusione del terzo atto e nel cuore del quarto - sono di fondamentale importanza storica e ideologica, in quanto testimonianza dei sentimenti patriottici dell'autore, che nel primo esorta l'Italia a prendere in mano le proprie sorti senza contare su aiuti stranieri, mentre nel secondo, che segue il delirio di Ermengarda, eleva la morte cristiana come salvezza dai contrasti terreni e dall'amore, riflettendo a livello storico su oppressi e oppressori, e celebrando il triste epilogo di Ermengarda come vero riscatto in un destino che sarà invece avverso per il suo popolo oppressore. Si può dire quindi che i cori del teatro manzoniano sono espressione dell'idea, mentre la realtà è affidata all'azione. Lo scrittore si accosterà infatti al teatro, seguendo i modelli di William Shakespeare e Friedrich Schiller, per allargare il proprio pubblico ma soprattutto quando si convinse che esso poteva essere la via per una letteratura con intenti morali.
La trama ha per principali protagonisti i figli del re longobardo Desiderio, Adelchi ed Ermengarda, quest'ultima ripudiata dal marito Carlo Magno. Desiderio, che riceve nel primo atto la notizia presso la sua corte di Pavia, pensa di vendicarsi attraverso un'azione di forza contro il papato, alleato con Carlo Magno, per indurlo ad incoronare re dei Franchi i nipoti di Carlo che sono stati allontanati dalla successione. Quando Carlo Magno ordina ai Longobardi di abbandonare le terre che hanno sottratto alla Chiesa, la situazione precipita, con Desiderio che dichiara la guerra nonostante il parere contrario del figlio Adelchi. La notizia genera una frattura tra i Longobardi, divisi tra i fautori del conflitto e quanti, guidati da Svarto, si apprestano al tradimento patteggiando in segreto con i Franchi.
Adelchi si presenta subito come un personaggio moderno e complesso, attorno al quale ruota la vicenda del dramma come un vero e proprio ideale centro morale della narrazione, eroe romantico sconfitto in quanto impossibilitato a combattere, vittima del dissidio interiore dell'essere il figlio di un re oppressore, ma paladino valoroso dei sogni di giustizia e fratellanza che difenderà sino alla morte, quando in fin di vita dinanzi a Carlo Magno e a suo padre Desiderio imprigionato, consolerà il genitore per la perdita del trono, affermando come l'assenza di potere non lo obbligherà più a "far torto, o patirlo", e arriverà a perdonare il re dei Franchi: "Il tuo nemico prega per te, morendo", trovando salvezza in una prospettiva ultraterrena.

Se al contrario della tragedia alfieriana, caratterizzata dalla sinteticità narrativa e di personaggi, in Manzoni sono numerosi gli intrecci e i protagonisti, così come le scene di confidenza, bisogna sottolineare l'importanza, nel secondo atto, di un personaggio secondario quale il diacono Martino, recatosi in guerra a sostegno delle truppe di Carlo Magno, bloccate in val di Susa in una strettoia difesa da Adelchi. Il religioso, dipinto come un uomo di fede guidato da Dio, è giunto all'accampamento attraverso una via non sorvegliata dall'esercito longobardo ed indica la strada per superare l'ostacolo. Le pagine descrittive del percorso da intraprendere, lungo un pertugio per monti inaccessibili, sono uno dei più chiari esempi del concetto di sublime teorizzato da Immanuel Kant, in cui emerge l'immensità della natura e della sua potenza che, dall'iniziale sgomento, porterà alla salvezza e alla possibilità, da parte dei Franchi, di assaltare i Longobardi.
Il terzo atto si focalizza sull'imboscata tesa dalle truppe di Carlo Magno e la vittoria dei Franchi, grazie anche al tradimento organizzato da Svarto, con l'assedio contro Desiderio a Pavia e Adelchi a Verona. Il coro, nella conclusione, esprime l'amarezza manzoniana per il destino degli uomini di potere e per l'agire storico, in una cupa poesia politica che rivendica tuttavia anche gli ideali unitari della nostra nazione, con l'esortazione agli italiani, "volgo disperso che nome non ha", ad essere artefici del proprio futuro.
Finalmente nel quarto atto compare Ermengarda, l'altra grande protagonista, apparsa in scena solamente una volta ma spesso rievocata. Rifugiatasi a Brescia nel convento della sorella Ansberga, ha ricevuto la notizia del matrimonio tra Carlo Magno e Ildegarde, scoppiando per amore in una disperazione che la condurrà sino alla morte. La componente del delirio femminile, vicina allo stile del melodramma, risulta essere il primo nell'ambito letterario, in cui generalmente era proprio dei personaggi maschili, si pensi al Saul dell'Alfieri. Ermengarda, fragile e incapace di accettare la crudeltà di un destino tanto avverso, è però una figura profondamente passionale, letteralmente travolta dall'amore, decisamente lontana dalla Lucia innamorata sottilmente di Renzo, la cui fede religiosa è posta dinanzi a qualsiasi altro legame.
L'ultimo atto, il più complesso e tormentato sul piano compositivo, vede la sconfitta di Desiderio e di suo figlio Adelchi, ferito mortalmente. Nella scena conclusiva, in cui Carlo Magno e Desiderio assistono alla morte di Adelchi, emerge nuovamente il tema della "provida sventura", come nel coro di Ermengarda, che sarà il fulcro de I promessi sposi. Se nel romanzo la provvidenza assume un ruolo maggiormente in chiave positiva e religiosa, in questa straordinaria tragedia è manifestazione diretta del destino di sofferenza voluto da Dio per gli uomini, che può divenire mezzo di purificazione e fratellanza, unico modo per trovare la vera salvezza, proprio come Ermengarda e Adelchi, le cui figure sono a noi così vicine dal momento in cui la loro stessa essenza è radicata nel dolore.