Canto XIII

La selva dei suicidi e Pier della Vigna

L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Ritrovatesi in una selva oscura e impervia, simile a quella proemiale del Canto I, Dante e Virgilio scendono nel secondo girone del settimo cerchio dell'Inferno.
Il settimo cerchio è suddiviso in tre gironi dove scontano la loro pena eterna le anime dei violenti, distinti fra coloro i quali esercitarono questo peccato contro il prossimo, confinati nel primo girone, quelli che furono violenti contro se stessi, vale a dire i suicidi e gli scialacquatori che troviamo in questo canto, infine, nel terzo girone, i violenti contro Dio, i bestemmiatori, oppure contro la natura, i sodomiti, e contro ciò che alla natura si conforma, gli usurai.
Sui rami degli alberi della selva, fitta e tenebrosa oltre ogni immaginazione, si annidano le Arpie, dalle larghe ali e il volto di donna, che gridano versi spaventosi.
Udendo lamenti da ogni parte del bosco, ma non vedendo anima alcuna, Dante si mostra turbato; Virgilio lo invita allora a spezzare un ramo per capire l'incredibile contrappasso degli spiriti qui puniti. Non appena il Poeta strappa un ramoscello dall'albero, del sangue esce dal tronco ed una voce proveniente dall'interno lo rimprovera del gesto, chiedendo se egli non abbia un minimo di pietà per loro, uomini in vita e poi trasformati in piante dopo la morte.

Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi.

Si tratta di uno dei contrappassi più fortunati nell'inventiva dantesca, che immagina i suicidi, i quali non ebbero rispetto per il loro corpo mortale, oppressi all'interno degli alberi e tormentati dalle Arpie, impossibilitati eternamente, anche a seguito del Giudizio finale, di rivestirsi del proprio corpo, che verrà appeso ai rami degli alberi dove adesso sono rinchiusi.
Dante chiede allo spirito di rivelare il suo nome in modo che egli possa ricordarlo fra i vivi, così l'anima si presenta come Pier della Vigna, poeta della scuola siciliana e segretario alla corte dell'imperatore Federico II, uccisosi in carcere a seguito dei sospetti e della calunnia mossi nei suoi riguardi, colpevole, secondo le malelingue, di tradimento nei confronti del proprio signore, amato e servito per lungo tempo con assoluta dedizione. Di umili origini, Pier della Vigna ricoprì le massime cariche amministrative di corte, inviato come diplomatico dall'imperatore, finendo poi per essere accusato di tradimento a favore del papa. Incapace di sopportare le accuse tanto ingiuste ed il disonore che ne conseguì, si diede la morte.
Il Poeta, attento alla componente psicologica umana, dichiara sottilmente l'amaro piacere a cui preferì andare incontro il dannato, dunque il suicidio, piuttosto che sopportare una colpa così grave che non aveva commesso, intenzionato a compiere un gesto tanto forte per affliggere i suoi detrattori del senso di colpa, mostrandosi superiore a loro. Vi è sempre nelle anime, proprio come nella Francesca da Rimini del Canto V, un piacere segreto nell'andare incontro al proprio peccato ed è proprio, nell'Inferno, il comprendere e analizzare il momento culminante della propria vita il modo con cui uno spirito acquista coscienza della radice del suo male. Dante è chiaramente un sostenitore dell'innocenza di Pier della Vigna, che diviene portatore, nella sua figura malinconica, di valori di estrema importanza quali, su tutti, l'assoluta dedizione e onestà nei riguardi del proprio sovrano, a cui rimase fedele sino al punto di preferire la morte piuttosto che la calunnia subita.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi;
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e' polsi.

Calunnia - Sandro Botticelli - 1492 circa - Firenze, Galleria degli Uffizi

D'improvviso un rumore sorprende Dante e Virgilio, ancora intenti a parlare con Pier della Vigna, quando da sinistra vedono sopraggiungere le anime, nude e graffiate, di due scialacquatori, coloro che in vita hanno dilapidato tutti i loro averi e che ora sono rincorsi da un branco di fameliche cagne di colore nero. Uno di loro, il senese Lano, invoca che sopraggiunga la morte per porre fine al suo strazio, deriso dal compagno Iacopo da Sant'Andrea, il quale tenta invano di nascondersi in un cespuglio, finendo per essere raggiunto e sbranato dagli animali.
Virgilio e Dante riescono a recarsi presso il cespuglio appena in tempo per udire gli ultimi lamenti del reprobo, che afferma di essere un suicida fiorentino e di essersi tolto la vita nella quiete della propria casa. Pietosamente, egli chiede ai due pellegrini che raccolgano le fronde del cespuglio, disperse dalle cagne, dove dovrà scontare la perpetua sofferenza.