Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso

Pianta effimera noi, cos'è il vivente?

Cos'è l'estinto? - Un sogno d'ombra è l'uomo.

Pindaro

Il parlare, e molto più lo scrivere di se stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di se stesso.

L'interesse di Vittorio Alfieri per la scrittura autobiografica si manifesta ancora prima della tardiva conversione letteraria. Fin da giovane scrisse delle memorie poi andate perdute e dal 1774 al 1775 tenne un diario in francese.
La prima stesura della Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso risale al 1790. Scrivere un'autobiografia a poco più di quarant'anni può sembrare prematuro, ma non quando si ha avuto il destino di vivere un'esistenza avventurosa e piena d'intensità come quella del poeta. I ricordi dell'infanzia e le vicende dell'età matura, gli amori passionali e gli entusiasmi letterari, rendono l'opera un autentico capolavoro del nostro Settecento.
Precursore della sensibilità romantica, l'Alfieri è stato un appassionato cosmopolita che Giacomo Leopardi definì "vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati del suo e del nostro tempo".

Nel Settecento fu grande la fortuna del genere autobiografico; l'opera di Alfieri fu influenzata infatti dalle Memorie di Carlo Goldoni, pubblicate nel 1787, e da Les confessions di Jean-Jacques Rousseau. La differenza con l'opera di Rousseau è che in Alfieri l'intenzione di delineare una carriera intellettuale appare ancora evidente, mentre in Rousseau l'autobiografia è una vera e propria "confessione", cioè un'indagine introspettiva di un mondo interiore.
Il testo, che presenta le tappe che hanno permesso all'Alfieri di divenire scrittore, si divide in due parti. La prima si apre con l'Introduzione e prosegue in quattro capitoli corrispondenti alle quattro diverse "epoche" della vita dell'autore: "Puerizia" (1749-1758), "Adolescenza" (1758-1766), "Giovinezza" (1766-1775) e "Virilità" (1775-1790). La seconda parte è la "continuazione della quarta epoca" e si riferisce agli anni che vanno dal 1790 al 1803. Questa divisione è dovuta alle due redazioni dell'opera. In quella definitiva l'Alfieri preferì mantenere la scansione cronologica del testo originale e narrare gli eventi successivi in una continuazione dell'ultimo capitolo, mantenendo però due sezioni distinte.

Introduzione
Il poeta precisa i motivi che lo hanno indotto a scrivere l'opera e ne illustra la struttura. L'amore di se stesso, dono che la natura concede a tutti gli uomini, in particolare ai poeti, è la principale ragione della stesura. Inoltre l'autore, avendo già scritto molto, compose questa autobiografia anche per evitare che una volta morto un qualsiasi libraio facesse scrivere, esclusivamente per motivi economici, una vita qualunque, senza conoscerla veramente, attingendo da fonti dubbi o parziali, solo al fine di curare una nuova edizione delle sue opere.
Alle motivazioni private si aggiunge uno scopo generale, cioè lo studio dell'uomo a partire dall'analisi di sé stesso. Lo stile è volutamente semplice, in quanto l'opera è dettata dal cuore e non dall'ingegno.

Puerizia
Nella città d'Asti in Piemonte, il dì 17 di gennaio dell'anno 1749, io nacqui di nobili, agiati, ed onesti parenti.
L'autore inizia indicandoci il luogo e la data di nascita, la quale non è però effettivamente quella in cui venne al mondo, bensì quella del battesimo, egli nacque infatti il giorno 16.
Il provenire dalla nobiltà fu per lui un'importante occasione per disprezzarla, svelandone ridicolezze e vizi senza correre il rischio di essere giudicato invidioso. Comunque il poeta tiene anche a sottolineare come l'onestà dei propri parenti non gli abbia mai causato imbarazzo d'essere nobile.
Il padre morì meno di un anno dopo la nascita di Vittorio, il figlio maschio che aveva tanto desiderato dopo la primogenita Giulia. Segue un elogio alla figura materna, "madre stimabilissima", di "forte e sublime carattere".

La sorella Giulia; la madre Monica Maillard in età matura.

La madre si risposò poco dopo la morte del marito e il giovane Vittorio trascorse l'infanzia nella casa del patrigno in una "stupida vegetazione infantile", sottoposto a un'educazione severa e "pessima" che segnò il carattere malinconico del poeta.

Interessante è un episodio che l'autore ci narra, di quando uno zio paterno gli diede degli ottimi confetti. Col tempo Vittorio non si ricordò quasi nulla di quell'uomo, se non che portava delle scarpe particolari quadrate in punta. Molti anni dopo, la prima volta che rivide questo tipo di scarpa, subito ricordò il sapore di quei buonissimi confetti dello zio, oltre che le sue dolci carezze. Alfieri spesso si soffermerà nella descrizioni di alcuni ricordi al fine di mostrare il funzionamento della memoria. In questo anticipa un autore come Marcel Proust, che si concentrerà molto su questo tema, sebbene nel suo caso giunga all'episodio, all'immagine, a partire dal sapore.
La sorella Giulia fu mandata presso il monastero di Asti, separazione che Vittorio visse con grande dolore nonostante potesse farle visita ogni giorno. Questa sensazione viene paragonata a quando negli anni giovanili fu costretto a dividersi da una ragazza di cui si era innamorato o da un amico sincero. Da ciò deriva la conclusione "che tutti gli amori dell'uomo, ancorché diversi, hanno lo stesso motore".
In questo capitolo vi sono dunque una serie di "reminiscenze dell'infanzia" in cui Alfieri scorge la causa o il primo sintomo delle sue inclinazioni naturali: la malinconia, il carattere passionale, il desiderio di gloria.
Rimasto solo a casa e affidato a un prete chiamato don Ivaldi, Vittorio scopre una certa inclinazione allo studio, sicuramente stimolata dal ritrovarsi in solitudine, quasi come rifugio dalla malinconia.
Dovendo studiare sotto la guida del maestro, sempre più raramente gli veniva concesso di far visita alla sorella, se non nei giorni di vacanza o di festa. Così Vittorio trova una consolazione dalla solitudine nel rifugiarsi nella Chiesa del Carmine vicina a casa sua, ascoltando la musica e osservando i frati compiere le loro cerimonie.
Il suo carattere sensibile, solitario, l'essere insofferente alle regole, lo portarono quasi inconsapevolmente a compiere un tentativo maldestro di suicidio, culminato con la reclusione in camera per più giorni.
Tra i sette ed ott'anni, trovandomi un giorno in queste disposizioni malinconiche, occasionate forse anche dalla salute che era gracile anzi che no, visto uscire il maestro, e il servitore, corsi fuori del mio salotto che posto a terreno riusciva in un secondo cortile dove eravi intorno intorno molt'erba. E tosto mi posi a strapparne colle mani quanta ne veniva, e ponendomela in bocca a masticarne e ingoiarne quanta più ne poteva, malgrado il sapore ostico ed amarissimo. Io avea sentito dire non so da chi, né come, né quando, che v'era un'erba detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse; eppure seguendo così un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m'era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di quell'erba, figurandomi che in essa vi dovesse anco essere della cicuta.

Viene narrata poi una "storietta" di quando si recò ad Asti la nonna materna per incontrare il nipote che, nonostante le carezze e la gentilezze della donna, non riusciva ad entrare in sintonia per il suo carattere selvatico. Il giovane rimase impressionato dal modo pomposo di vestire di quella rilevante signora di Torino, la quale, prima di andarsene, gli disse che doveva chiedere un qualche regalo, quello che più lo avrebbe soddisfatto, in modo che glielo avrebbe portato per vederlo felice. Vittorio, all'inizio per vergogna e timidezza, in seguito per ostinazione e fermezza, rispose per più volte allo stesso modo: niente. A quel punto, dopo che la nonna fu partita, venne chiuso in camera sua in castigo. In realtà giorni prima Vittorio aveva rubato dalla borsa della nonna un ventaglio che aveva nascosto nel proprio letto; quando venne scoperto il castigo fu ancora più severo, nonostante la sua intenzione fosse quella di fare un regalo alla sorella. La conclusione dell'autore è che "il rispetto delle altrui proprietà, nasce, e prospera prestissimo negl'individui che ne posseggono alcune legittime loro".

L'autore chiude il capitolo affermando l'importante concetto che l'uomo adulto non è altro che una continuazione del bambino, per capire la personalità di una persona è necessario conoscere la sua infanzia e le prime esperienze di vita; risiede qui, dunque, il vero significato di quest'epoca che un lettore superficiale potrebbe ritenere inutile per gli argomenti trattati.
Questo primo squarcio di una vita (che tutta forse è inutilissima da sapersi) riuscirà certamente inutilissimo per tutti coloro, che stimandosi uomini si vanno scordando che l'uomo è una continuazione del bambino.

Adolescenza

La seconda epoca si apre con l'arrivo a Torino del giovane Vittorio, rapito dall'emozione del viaggio e dalla grande città in una stupenda giornata. La sera stessa però, in albergo, tra visi sconosciuti e la sola presenza dello zio visto in precedenza una volta, senza la madre e il suo maestro, iniziò ad avvertire nostalgia di casa fino a scoppiare in lacrime.
Pian piano si ambientò, ma non fu facile per un ragazzino di soli nove anni ritrovarsi in mezzo a persone nuove, lontano dai parenti che avevano deciso di farlo entrare nella Reale Accademia di Torino per intraprendere la carriera militare.
Se l'educazione ricevuta nei primi anni viene giudicata "pessima", il periodo trascorso all'Accademia di Torino sono "otto anni d'ineducazione", di "non studi", in un ambiente nel quale i maestri e allievi sono egualmente "asini". Si facevano temi "sciocchissimi" e si traducevano vite di uomini che il maestro stesso non sapeva chi fossero. Le idee erano dunque confuse e in chi insegnava non vi era alcuno scopo, alcun ideale; erano dei "vergognosissimi perdigiorni".
Migliori risultati arrivarono il secondo anno, quando Vittorio fu promosso all'Umanità dove conobbe un prete di sufficiente dottrina. Poté studiare la lingua latina e competere con un compagno nella redazione del tema. Quest'ultimo sempre vinceva negli esercizi di memoria, riuscendo a recitare d'un fiato sino a seicento versi delle Georgiche di Virgilio senza sbagliare una sillaba, mentre Vittorio arrivava al massimo a quattrocento ed anche con qualche errore. All'inizio per qualche sconfitta in questi giochi, Vittorio, non poco ambizioso, piangeva e si rattristiva, ma più avanti diventò la stessa cosa se vinceva l'uno o l'altro e si può dire che i due giovani diventarono amici.
In quell'anno gli capitò, quasi per caso, senza ricordarsi come, di poter leggere l'Ariosto. Il libro con tutte le opere del poeta in quattro piccoli tomi di certo non l'aveva comprato, in quanto soldi non ne aveva, nemmeno rubato, forse l'aveva barattato per un pollo con un compagno, al fine di poterlo leggere, e con moltissima passione, anche se non capiva bene quello che vi era scritto, fino a quando gli venne ritirato da un insegnante.
I primi due anni all'Accademia non furono quindi molto utili a livello didattico, inoltre Vittorio ci rimise in salute; egli non cresceva di statura, era magro e sempre pallido. Frequenti malanni lo afflissero, tra cui dolorosi mal di testa. Inoltre lo zio, divenuto governatore di Cuneo, non era quasi mai in città e a Vittorio non rimaneva che un cugino del padre, Benedetto Alfieri, nobile architetto dal cuore buono e dalle maniere semplici. A volte Vittorio andava a pranzo da lui che lo appassionava con discorsi entusiasti sull'arte e in particolare su Michelangelo Buonarroti. Egli aveva passato gran parte della vita a Roma, raffinando il suo gusto classicistico per il bello antico, anche se col tempo si adeguò al moderno e al rococò.

L'amore per la solitudine cresceva nel giovane Vittorio quando i compagni lo prendevano in giro per l'aspetto pallido e la fragile costituzione, chiamandolo "col gentilissimo titolo di carogna; ed i più spiritosi ed umani ci aggiungevano anco l'epiteto di fradicia". Intanto nell'anno 1760 passava dall'Umanità in Rettorica, ma il maestro, meno abile del precedente, spiegava l'Eneide in un modo che a Vittorio sembrava farlo regredire nella padronanza della lingua latina.
Riuscito a recuperare il libro sull'Ariosto, facendo gran festa dentro sé per questo, e senza dirlo a nessuno, riprese a leggerlo, ma senza la stessa avidità, sia per motivi di salute che per il continuo frammentare le storie da parte dell'Ariosto, tipica caratteristica del suo modo di narrare, "che nel meglio del fatto ti pianta lì con un palmo di naso". In effetti già nella giovinezza l'Alfieri aveva individuato i due elementi principali della poetica ariostesca, la suspense e l'entrelacement, cioè il portare avanti in parallelo più vicende contemporaneamente e intrecciando numerosi fili narrativi. In questo senso avrebbe preferito, afferma, un autore come Torquato Tasso, ma al tempo non lo conosceva. Non aveva ancora affrontato i letterati a lui contemporanei, se non in parte alcuni libretti di Pietro Metastasio, come il Catone, l'Artaserse e L'Olimpiade. Gli capitò di leggere anche, con molto divertimento, alcune commedie del Goldoni, le quali gli venivano prestate dal maestro stesso.
Nel 1761, dopo un anno di Rettorica, venne giudicato capace di entrare in Filosofia, un corso di due anni dedicato a Geometria e Logica, Fisica ed Etica. Le lezioni si svolgevano fuori dall'Accademia, nella vicina Università, dove si recava due volte al giorno. Vittorio era orgoglioso di frequentare questa classe, detta dei grandi, e felice di poter uscire un po' all'aria aperta, spesso facendo delle belle corse per le strade della città fingendo di uscire dalla lezione per qualche bisogno. Questo anche perché la geometria non la capiva e lo annoiava e la lezione di filosofia peripatetica "era una cosa da dormirvi in piedi". Altro motivo che lo rese felice fu la concessione, da parte dei superiori, di poter dormire al mattino fino alle sette, invece di essere alzato alle cinque e tre quarti per le prime orazioni.
Il ritorno delle zio, che spesso lo faceva mangiare a casa, e la visita della sorella Giulia aiutarono Vittorio a rimettersi un pochino e crescere in salute.
Durante le vacanze di quell'anno poté recarsi per la prima volta al Teatro di Carignano, costruito su disegno di Benedetto Alfieri, ad assistere ad un opera buffa su libretto di Goldoni, intitolata Mercato di Malmantile. La musica gli piacque moltissimo e per più settimane rimase "immerso in una malinconia straordinaria ma non dispiacevole", che se fosse stato capace lo avrebbe aiutato a "far dei versi, [...] ed esprimere dei vivissimi affetti". Fu la prima volta che una composizione musicale lo rapì nell'immaginazione e lo ispirò poeticamente.
Avendo studiato con la giusta dedizione, gli venne concesso nell'anno 1762 di recarsi a Cuneo per trovare lo zio e in quell'occasione compose il primo sonetto, anche se l'autore non lo reputa suo in quanto frutto dell'imitazione di alcuni versi presi dal Metastasio e dall'Ariosto, gli unici poeti italiani di cui avesse letto qualcosa.
Nel 1763 cominciò lo studio della fisica e dell'etica, ma l'impegno nello studio fece sì che gli si ripresentassero quegli insopportabili dolori alla testa. Rilevante fu l'incontro col nuovo maestro di geografia, che insegnava la disciplina in francese in quanto proveniva dalla Val d'Aosta, il quale gli prestò vari romanzi che lesse uno dopo l'altro. Intanto cresceva l'interesse per la musica nonostante la scrittura sul pentagramma "non mi voleva entrare in capo; tutto era orecchia per me, e memoria, e non altro". I corsi che si tenevano di scherma e di ballo, invece, non erano di suo gradimento; il primo perché era troppo debole per stare in guardia e il secondo per una naturale ostilità verso la danza. Addirittura non poteva sopportare il maestro, un francese, per il quale sviluppò una vera e propria avversione, e insieme a lui di tutto il popolo francese, perché "le prime impressioni in quell'età tenera radicate, non si scancellano mai più, e difficilmente s'indeboliscono, crescendo gli anni; la ragione le va poi combattendo, ma bisogna sempre combattere per giudicare spassionatamente, e forse non ci si arriva".
Lo stesso anno morì lo zio, "uomo stimabile per la sua rettitudine, e coraggio; avea militato con distinzione; aveva un carattere scolpito e fortissimo, e le qualità necessarie al ben comandare", così Vittorio si ritrovò ancora una volta da solo. Questo gli permise, però, di recarsi alla scuola di equitazione, che sino ad allora gli era stata negata. Per la prima volta andò a cavallo, "arte nella quale divenni poi veramente maestro molti anni dopo". All'inizio la sua costituzione era un po' gracile per cavalcare, perché di poca forza nelle ginocchia, ma la volontà di farcela gli permise di fare subito buoni progressi, anzi, l'esercizio giovò nettamente alla sua salute.
Il giorno 8 maggio 1763 passò al Primo Appartamento, dopo aver frequentato il Terzo e il Secondo provando invidia della maggiore libertà goduta dagli studenti più grandi, soliti recarsi a corte, ai teatri, secondo il loro piacimento. Vittorio poté così studiare con maggiore serenità, migliorare lo stile di vita e andare a cavallo ogni giorno. Si iniziò a vestire a modo suo, spendendo molto negli abiti che gli piacevano, liberandosi finalmente degli abiti neri che doveva portare nei cinque anni del Terzo e Secondo Appartamento. Riuscì a farsi dei nuovi amici che lo stimavano e continuava a leggere romanzi francesi, "ché degli italiani leggibili non ve n'è", cimentandosi anche, pur senza ritenerlo utile, nella lettura dei volumi della Storia ecclesiastica di Claude Fleury, confessore di Luigi XV. Riprendendo ancora i romanzi, più volte lesse Les Mille et une Nuit.
L'anno seguente si sposò la sorella Giulia con il conte Giacinto di Cumiana, evento che gli restò impresso nella mente perché si recarono per un mese in villeggiatura nella residenza dello sposo, distante dieci miglia da Torino. Furono giorni allegri, trascorsi come una liberazione dopo il lungo inverno passato nell'Accademia. Avendo avuto il permesso, per l'occasione, di spendere qualche soldo in più, Vittorio acquistò il suo primo cavallo che portò con sé durante la vacanza. Non pensava neanche più a mangiare e non riusciva a prendere sonno nell'attesa di potersi recare dal suo amato animale per farci un giro. Da uno solo ne desiderò poi un altro e un altro ancora, fino ad arrivare ad otto.

"Primo amoruccio"
Il 1765 fu l'anno del primo sentimento amoroso, durante un'altra vacanza con due fratelli suoi compagni di equitazione. "Provai per la prima volta sotto aspetto non dubbio la forza d'amore per una loro cognata, moglie del loro fratello maggiore. Era questa signorina, una brunetta piena di brio, e di una certa protervia che mi facea grandissima forza". Nel momento dell'innamoramento e alla vista della donna il poeta prova delle emozioni che torneranno anche per altre vicende sentimentali nella sua vita.
Una malinconia profonda e ostinata; un ricercar sempre l'oggetto amato, e trovatolo appena, sfuggirlo; un non saper che le dire, se a caso mi ritrovava alcuni pochi momenti (non solo mai, che ciò non mi veniva fatto mai, essendo ella assai strettamente custodita dai suoceri) ma alquanto in disparte con essa; un correre poi dei giorni interi (dopo che si ritornò in villa) in ogni angolo della città, per vederla passare in tale o tal via; [...] un non poterla neppure udir nominare, non che parlar mai di essa; ed in somma tutti, ed alcuni più, quegli effetti sì dottamente e affettuosamente scolpiti dal nostro divino maestro di questa divina passione, il Petrarca. Effetti, che poche persone intendono, e pochissime provano; ma a quei soli pochissimi è concesso l'uscir dalla folla volgare in tutte le umane arti.

"Primo viaggetto"
Nell'autunno dello stesso anno l'Alfieri si recò per dieci giorni a Genova col suo curatore, in quello che fu il suo primo viaggio. La vista del mare lo colpì profondamente, tanto da non riuscire a smettere di contemplarlo. Come successo con la musica, anche in questa situazione l'emozione dentro sé lo ispirò e lo avrebbe fatto comporre dei versi se solo avesse avuto maggiore esperienza con i poeti.
Forse per la prima volta si manifestò in lui il grande desiderio di viaggiare; tornato all'Accademia voleva raccontare la sua esperienza agli amici, in quanto "mi pareva di aver fatta una gran cosa", però subito era frenato dal fatto che questi venivano anche da luoghi lontani, vi erano infatti inglesi, tedeschi, polacchi, russi, così provava ancor di più "una frenetica voglia di viaggiare, e di vedere da me i paesi di tutti costoro".

"E qui darò fine a questa seconda parte; nella quale m'avvedo benissimo che avendovi io intromesso con più minutezza cose forse anco più insipide che nella prima, consiglierò anche il lettore di non arrestarvisi molto, o anche di saltarla a piè pari; poiché, a tutto ristringere in due parole, questi otto anni della mia adolescenza altro non sono che infermità, ed ozio, e ignoranza".

Giovinezza

Il capitolo inerente all'epoca della Giovinezza narra di una serie di viaggi compiuti dal poeta a partire dall'anno 1766, quando, la mattina del 4 ottobre, "dopo aver tutta notte farneticato in pazzi pensieri senza mai chiuder occhio", partì per Milano.
Dopo una sosta di due settimane circa, passando per Piacenza, Parma e Modena, arrivò a Bologna che, con "i suoi portici e frati, non mi piacque gran cosa".
Verso la fine di ottobre fu a Firenze, dove si fermò un mese visitando "la Galleria, e il Palazzo Pitti, e varie chiese; ma il tutto con molta nausea, senza nessun senso del bello. [...] La tomba di Michelangelo in Santa Croce fu una delle poche cose che mi fermassero; e su la memoria di quell'uomo di tanta fama feci una qualche riflessione".

L'Alfieri racconta poi di essersi messo a studiare la lingua inglese al posto che imparare dal vivo la "divina lingua dei beati Toscani"; di ciò "mi toccherà di arrossire in eterno".
Il primo giorno di dicembre ripartì "alla volta di Lucca per Prato e Pistoia. Un giorno in Lucca mi parve un secolo; e subito si ripartì per Pisa. E un giorno in Pisa, benché molto mi piacesse il Camposanto, mi parve anche lungo. E subito, a Livorno. Questa città mi piacque assai e perché somigliava alquanto a Torino, e per via del mare, elemento del quale io non mi saziava mai". Oltre all'amore per il viaggio in Alfieri si manifesta sin da giovane, dunque, il tedio fortissimo per le soste appena prolungate. Inoltre esprime in questo periodo una certa insofferenza verso l'Italia e gli italiani, "divisi, deboli, avviliti e servi; io grandemente mi vergognava d'essere, e di parere Italiano, e nulla delle cose loro non voleva né praticar, né sapere". Sarà necessario, afferma, "uscire lungamente d'Italia per conoscere ed apprezzar gli Italiani".

Questa concezione in un certo senso è molto moderna se si considera che sovente, soprattutto i giovani, manifestano la voglia di andare all'estero perché stanchi del proprio Paese, per poi, una volta cresciuti, accorgersi che non vi è posto in cui si sta meglio e in cui vi sia una simile ricchezza artistica e culturale.

In seguito a una breve sosta a Siena, l'autore si recò a Roma, "con una palpitazione di cuore quasiché continua, pochissimo dormendo la notte, e tutto il dì ruminando in me stesso e il San Pietro, e il Coliseo, ed il Panteon". Presso San Pietro, in quei soli otto giorni di sosta, Vittorio voleva tornare anche due volte al giorno; solo molti anni dopo, afferma, sarebbe però stato in grado di apprezzare veramente il valore della città.

Il colonnato della basilica di San Pietro, realizzato da Gian Lorenzo Bernini, in un'illustrazione di Giovanni Battista Piranesi datata 1748.


Nel 1767 fu a Napoli, dove il clima era quasi primaverile nonostante l'inverno. Ciò che interessò maggiormente lo scrittore fu l'opera buffa del Teatro Nuovo, nonostante la malinconia che quella musica, benché dilettevole, provocava nel suo animo.

Soltanto molti anni dopo mi avvidi, che la mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi necessità ch'era in me di avere il cuore occupato da un degno amore.

Impaziente di lasciare Napoli per fare ritorno a Roma, quando arrivò "stessa dissipazione, stessa noia, stessa malinconia, stessa smania di rimettermi in viaggio".

In questo secondo soggiorno romano poté incontrare il papa, che allora era Clemente XIII, veneziano di una "veneranda maestà", a cui baciò il santo piede.

Vittorio voleva vedere la Francia, l'Inghilterra e l'Olanda; verso i primi di maggio partì per Venezia, passando per Loreto e ancora per Bologna che "non mi piacque nulla più, anzi meno al ritorno che non mi fosse piaciuta all'andare". Proseguì per Ferrara dove non si ricordò di visitare la tomba del "divino Ariosto".

"Ed eccomi finalmente in Venezia"; Vittorio mostra entusiasmo per la città e il suo dialetto, già ascoltato nelle commedie di Goldoni. Si fermerà qui sino a metà giugno per la folla di forestieri, la quantità di teatri e le molte feste, nonostante il manifestarsi nuovamente della "solita malinconia, la noia, e l'insofferenza dello stare". Così trascorse molti giorni in solitudine senza uscir di casa e senza far nulla se non stare alla finestra ad osservare una signorina che abitava di fronte; "il rimanente del giorno lunghissimo, me lo passava o dormicchiando, o ruminando non saprei che, o il più spesso anche piangendo, né so di che; senza mai trovar pace".

Piazza San Marco - Canaletto - 1723 circa

Partito da Venezia senza aver visitato "neppure la decima parte delle tante maraviglie", giunse a Padova, anche qui senza ricordarsi che poco lontano, ad Arquà, riposava il Petrarca. Passando per Vicenza, Verona, Mantova, Milano e Genova, si imbarcò verso Antibes, costretto però a fermarsi nel porto di Savona per il forte vento. "Io non voleva più assolutamente vedere né sentir nulla dell'Italia"; arrivò così in Francia, recandosi a Tolone e in seguito Marsiglia, città che gli piacque molto. Rimase qui un mese; una delle ragioni per cui scelse di recarsi in Francia fu il teatro, nonostante "non mi cadde mai nell'animo, né in pensiero pure, ch'io volessi o potessi mai scrivere delle composizioni teatrali". Manifestava maggior interesse per la commedia, sebbene in futuro sarebbe divenuto celebre per le sue tragedie e "ancorché per natura mia fossi tanto più inclinato al pianto che al riso".
Una delle principali ragioni di questa sua indifferenza per la tragedia era per la presenza di personaggi secondari che allungavano l'azione senza che ce ne fosse bisogno. Nelle sue composizioni il poeta avrebbe infatti eliminato "tutti i personaggi non strettamente necessarissimi" e tutte le figure secondarie come messaggeri, confidenti, servi e quelli "messi in ascolto per penetrare gli altrui segreti".
In questo periodo le tragedie che meno gli dispiacquero furono la Fedra di Racine, l'Alzira e il Maometto di Voltaire.
Oltre al teatro, Alfieri amava fare il bagno al mare di sera, trascorrendo molto tempo su di uno scoglio che gli permetteva di non vedere altro se non il mare e il cielo; "e così fra quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell'onde, io mi passava un'ora di delizie fantasticando; e quivi avrei composte molte poesie, se io avessi saputo scrivere o in rima o in prosa in una lingua qual che si fosse".
Questa immagine del poeta immerso nella natura, ispirato dall'immensità, è molto vicina al sentimento romantico, di cui Alfieri viene infatti considerato un precursore.

Viandante sul mare di nebbia - Caspar David Friedrich - 1818


Lasciata Marsiglia, verso il 10 di agosto si diresse a Parigi, "più come fuggitivo che come viaggiatore", sostando solo a Lione senza passare per Avignone, che era stata sede papale, né a Valchiusa, dove soggiornò l'autore del Canzoniere; "nulla mi potea distornare dall'andar dritto a guisa di saetta in verso Parigi".
Il primo soggiorno parigino di Alfieri durò solo qualche mese, passando il tempo in passeggiate e nei teatri, interrompendolo per il solito tedio e l'insofferenza per le soste. Dopo aver visitato la corte di Versailles, al tempo del regno di Luigi XV, si rimise in viaggio per Londra, città che gli piacque molto quando arrivò, in seguito l'Olanda, nella città di L'Aja, dove incontrò finalmente l'amore, "che mai fin allora non mi avea potuto raggiungere né afferrare. Una gentil signorina, sposa da un anno, piena di grazie naturali, di modesta bellezza, e di una soave ingenuità, mi toccò vivissimamente nel cuore".
Scoprì dunque il sentimento dell'amore e inoltre, grazie a un nuovo amico ricco di preziosi consigli, il signor Don José D'Acunha, si accostò alla lettura di poeti italiani che prima aveva ignorato, come l'immortal Niccolò Machiavelli, "di cui null'altro sapeva io che il semplice nome".
Fu un periodo felice, circondato d'affetti, anche se non durò a lungo in quanto la donna dovette partire con il marito. L'animo del poeta era affranto e disperato, "voleva io assolutamente morire", cercò così di togliersi la vita. Il tentativo fallì per l'intervento di Francesco Elia, il suo fidato servo che lo seguiva in ogni viaggio.

Rientrato a Torino, alloggiò in casa della sorella Giulia. "Molti non mi riconoscevano quasi più attesa la statura che in quei due anni mi si era infinitamente accresciuta". Con il cuore pieno di malinconia e d'amore sentiva la necessità di dedicarsi a qualche studio per svagare la mente, così lesse l'Eloisa di Rousseau, mentre la sua opera politica Il contratto sociale non riusciva a comprenderlo. Di Voltaire gli interessavano solo le prose, mentre i versi lo annoiavano. Scoprì Montesquieu che con stupore lo interessò. L'autore però che più di tutti gli "fece veramente trascorrere dell'ore di rapimento e beate" fu Plutarco. Lesse le vite dei grandi, tra cui Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone ed altre, rileggendole sino a quattro o cinque volte, piangendo e addirittura gridando, "che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato".

Intanto fallì il tentativo del cognato di combinargli un matrimonio con una ragazza nobile e ricca, la quale, sebbene affascinata dal poeta, alla fine sceglierà un altro giovane d'animo più tranquillo.

Da qui comincia il suo secondo viaggio in Europa, che durò dal 1769 al 1772, in compagnia del fidato Elia, partendo alla volta di Vienna e passando nuovamente per Milano e Venezia, "due città ch'io volli rivedere", poi Trento, Innsbruck, Augusta e Monaco. A Vienna si fermò tutta l'estate, spezzando la sosta con una visita a Budapest.
A settembre proseguì verso Praga e Dresda, in seguito a Berlino dove conobbe con fastidio e rabbia Federico II.

Vienna nel XVIII secolo - Canaletto - 1760

Il viaggio proseguì verso la Danimarca, a Copenaghen, città che gli piacque abbastanza, sicuramente molto più di Berlino.
Verso fine marzo si recò in Svezia, a Stoccolma, in seguito, "sempre incalzato dalla smania dell'andare", nel 1770 arrivò sino in Finlandia e poi in Russia, dove non volle neppure essere presentato all'imperatrice Caterina II, "che tanto ha stancata a' giorni nostri la fama", avendo sviluppato una profonda avversione al dispotismo.

Nel 1771 fu di nuovo a Londra, dove visse il "secondo fierissimo intoppo amoroso", instaurando una relazione con una donna conosciuta già durante il primo viaggio, di nome Penelope Pitt, moglie del visconte Edward Ligonier, il quale sfidò Alfieri a duello, ferendolo ad un braccio.

Ritratto di Penelope Pitt.

L'accaduto suscitò un grande scandalo e un processo per adulterio che costrinse l'Alfieri a lasciare l'Inghilterra. Decise così di recarsi nuovamente in Olanda, in cerca di consolazione dall'amico D'Acunha.
Il dolore era però profondo e "sentendomi dunque di giorno in giorno anzi crescere la malinconia che scemare", Vittorio si rimise in viaggio alla volta di Spagna, l'unico paese europeo che non aveva ancora visitato.
Ripensando e mettendo a confronto il primo amore olandese con il secondo inglese, il poeta arrivò a Parigi, dove rimase circa un mese per lasciare passare il caldo prima di recarsi in Spagna. Durante il soggiorno francese avrebbe potuto fare la conoscenza di Rousseau, ma nonostante la stima che aveva per lui, "non essendo io per mia natura molto curioso", decise di non incontrarlo. Importante fu invece per l'Alfieri l'acquisto di una raccolta dei principali poeti e prosatori italiani in trentasei volumi di piccolo formato: "questi illustri maestri mi accompagnarono poi sempre da allora in poi da per tutto". Lesse così per la prima volta Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso e Machiavelli. "Io era giunto all'età di circa ventidue anni senza averne punto mai letto, toltone alcuni squarci dell'Ariosto nella prima giovinezza".
"Munito in tal guisa di questi possenti scudi contro l'ozio e la noia, partii per la Spagna verso il mezzo agosto", decidendo di soggiornare nella città di Barcellona. Qui comprò subito due cavalli, in quanto i suoi erano rimasti in Inghilterra, "e su questi io disegnava di fare tutto il mio viaggio di Spagna", cavalcando verso Madrid per i deserti di "quel regno africanissimo". "Per me l'andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare, il massimo degli sforzi". A Madrid si fermò infatti solo per un mese, senza incontrare nessuno se non un giovane orologiaio con cui cenò una sera in una locanda. Mentre i due chiacchieravano, il servo Elia si mise a sistemare i capelli al padrone prima di andare a letto, quando, avendo stretto troppo una ciocca con il ferro che serviva a dividere e ad arricciare i capelli, Vittorio si alzò di scatto e lo colpì ferendolo alla tempia. Il ragazzo spagnolo cercò allora di fermarlo, ma l'animoso ed offeso Elia reagì, dando vita ad un vero e proprio duello con le spade, così che lo spagnolo non sapeva più chi placare. Una volta riappacificati gli animi, Vittorio si giustificò dicendo che l'aver sentito tirar i capelli lo aveva mandato fuori di sé, mentre Elia sosteneva di non essersene nemmeno accorto di avergli fatto del male.
"Così finì quella orribile rissa, di cui io rimasi dolentissimo e vergognosissimo e dissi ad Elia ch'egli avrebbe fatto benissimo ad ammazzarmi. [...] Inorridii molto di un così bestiale eccesso di collera. [...] Io, nel rendere poi dopo ragione a me stesso del mio orribile trasporto, fui chiaramente convinto, che aggiunta all'eccessivo irascibile della natura mia l'asprezza occasionata dalla continua solitudine ed ozio, quella tiratura di capello avea colmato il vaso, e fattolo in quell'attimo traboccare".

Lasciata Madrid, Alfieri si recò in Portogallo, a Lisbona, dove arrivò la vigilia di Natale dell'anno 1771. La città lo rapì sin da subito e la paragona a Genova, "con maggiore estensione e varietà", nonostante la tristezza di alcune strade ancora piene di rovine causate dal terremoto che nel 1755 aveva devastato la città.
L'autore afferma che ricorderà sempre con piacere quelle cinque settimane trascorse a Lisbona per avervi conosciuto l'abate Tommaso di Caluso, che "mi rendé delizioso codesto soggiorno. [...] Con esso io imparava sempre qualche cosa, e tanta era la di lui bontà e tolleranza, che egli sapea per così dire alleggerirmi la vergogna ed il peso della mia ignoranza estrema, la quale tanto più fastidiosa e stomachevole gli dovea pur comparire, quanto maggiore ed immenso era in esso il sapere". Fu proprio in una di quelle serate trascorse in compagnia di quel suo secondo amico, che Vittorio provò nel cuore un grande entusiasmo per l'arte della poesia, anche se "non fu che un brevissimo lampo, che immediatamente si tornò a spegnere, e dormì poi sotto cenere ancora degli anni ben molti".

Verso i primi di febbraio del 1772 partì per Siviglia, dove gli piacque il bel clima, poi Cadice, Cordova, Valencia, sino a Barcellona. A maggio fece ritorno, dopo tre anni di assenza, a Torino, indebolito e ammalato per il lungo viaggiare. "E questo fu il principal frutto dei tre anni di questo secondo mio viaggio".
Con ironia lo scrittore afferma che l'unico segno dei suoi viaggi è stato l'ammalarsi, tuttavia in seguito riflette su come l'aver visitato tanti paesi, l'aver incontrato alcune persone, gli avessero allargato le idee e reso un pensatore libero ed esperto.
"Io mi trovava allora in età di ventitré anni; bastantemente ricco, pel mio paese; libero, quanto vi si può essere; esperto, benché così alla peggio, delle cose morali e politiche, per aver veduti successivamente tanti diversi paesi e tanti uomini; pensatore, più assai che non lo comportasse quell'età; e presumente (presuntuoso) anche più che ignorante".
Nel 1773 acquistò una magnifica casa affacciata su piazza San Carlo, arredandola sontuosamente ed invitando i vecchi amici dell'Accademia militare e tutti quelli dell'adolescenza. Con loro diede vita ad una piccola società che si riuniva settimanalmente alla sera per cenare insieme e ragionare su vari argomenti. Si era soliti anche scrivere, per lo più in francese, per poi venir letti davanti a tutti dal presidente eletto dal gruppo in quel giorno. Così Vittorio scrisse molto, in particolare satire che divertivano la brigata, "miste di filosofia e d'impertinenza", tra cui una che rappresentava la scena del Giudizio Universale in cui Dio interrogava varie anime, le quali erano i ritratti di persone, conosciute dalla compagnia, che vivevano nella città. Lo scritto è intitolato Esquisse de Jugement Universél, ed è ispirato a Voltaire.

La libertà totale, lo svago, le donne, i dodici cavalli, erano tutti ostacoli che allontanavano in Vittorio il desiderio di divenire autore. Così, perdendo tempo nell'ozio, senza mai aprire un libro, si ritrovò per la terza volta innamorato, di un amore triste "dal quale poi dopo infinite angosce, vergogne, e dolori, ne uscii finalmente col vero, fortissimo, e frenetico amore del sapere e del fare, il quale d'allora in poi non mi abbandonò mai più". Quindi da una situazione negativa questo sentimento lo portò al punto di svolta della sua vita, capace di salvarlo dalla noia e dalla disperazione. Perché sino a questo sarebbe arrivato se non avesse trovato qualcosa in cui occupare la mente al fine di non pensare, di non soffrire.
La donna, più grande di lui, era la marchesa Gabriella Falletti di Villafalletto, con la quale lo scrittore aveva già avuto un rapporto di amicizia quando era all'Accademia. Per spiegare come si sentiva, Alfieri cita dei versi del Petrarca:

So di che poco canape si allaccia
un'anima gentil, quand'ella è sola,
e non è chi per lei difesa faccia

In questo periodo la salute di Vittorio peggiorò notevolmente, prendendogli lo stomaco, tanto che non riusciva neanche a mangiare e bere. Dopo quattro giorni di totale digiuno, pian piano si rimise, anche se i molti giorni senza cibo e gli sforzi per il vomito segnarono inevitabilmente il suo stomaco. "La rabbia, la vergogna, e il dolore, in cui mi facea sempre vivere quell'indegno amore, mi aveano cagionata quella singolar malattia. Ed io, non vedendo strada per me di uscire di quel sozzo laberinto, sperai, e desiderai di morirne".
Guarito dalla malattia, l'anno successivo si trovò a dover assistere l'amica, ammalatasi anch'ella, e "fedelmente io le stava a piè del letto seduto per servirla; e ci stava dalla mattina alla sera". Proprio in questi momenti, quasi per caso, spinto dalla noia, si mise a scrivere su dei fogli di carta, "a schiccherare una scena di una non so come chiamarla, se tragedia, o commedia, se d'un sol atto, o di cinque, o di dieci; ma insomma delle parole a guisa di dialogo, e a guisa di versi". Nacque così la tragedia Antonio e Cleopatra, in futuro da lui ripudiata. Nonostante fosse da più di sei anni, afferma l'autore, che non scriveva una parola in italiano, in quell'istante gli venne naturale, senza sapere il perché, usare questa lingua e la forma del verso. L'ispirazione nello scrivere quest'opera fu probabilmente tratta dalla vista, nell'anticamera della signora, di alcuni bellissimi arazzi che rappresentavano le vicende di Cleopatra e Antonio.
Quando la donna guarì, Vittorio mise da parte i fogli della sua sceneggiatura, senza più pensarci, nascondendoli sotto un cuscino di una poltroncina della casa di lei, così che vennero, "sì dalla signora che vi si sedeva abitualmente, sì da qualunque altri a caso vi si adagiasse, covate in tal guisa fra la poltroncina e il sedere di molti quelle mie tragiche primizie".
Annoiato e arrabbiato per quella sua vita servile, nel maggio del 1774, Vittorio decise di partire per Roma, cercando conforto nel viaggio e nella lontananza. Approfittando di un litigio avuto con la donna, la mattina successiva era già alla volta di Milano. Decise però di scrivere una lettera alla signora per chiederle perdono di quella sua fuga e di poterlo riaccogliere. Subito ricevette risposta tramite Elia, il servo "destinato sempre a medicare, o palliar le mie piaghe". La marchesa accettò di incontrare Vittorio che venne perdonato, ottenendo il permesso di viaggiare per cinque o sei settimane per poi fare ritorno a Torino. All'alba era così di nuovo in cammino verso Milano, dove questa volta arrivò, sebbene fosse riassalito dal rimorso. Nuovamente il poeta trova le parole giuste per esprimersi in "quel profondo ed elegante bel detto del nostro maestro d'amore, il Petrarca":

Che chi discerne è vinto da chi vuole.

Il Duomo di Milano verso la metà del Settecento in un'incisione di Marcantonio Dal Re.

Solo due giorni si trattenne a Milano in quanto non riusciva a trovare pace, ripartendo di nuovo per Parma, Modena, Bologna, Firenze, anche qui fermatosi solo due giorni, in seguito Pisa e Livorno. Qui ricevette le prime lettere della signora, così Vittorio decise di tornare a Torino dopo soli diciotto giorni dalla partenza, in quello che definì viaggio "burlesco".
Senza però essere felice, avvilito e divorato dalla malinconia, nel 1775 troncò definitivamente la relazione con la marchesa.
Già alcuni giorni prima della separazione, Vittorio aveva ripreso, da sotto la poltroncina dove l'aveva nascosta, la sua tragedia Antonio e Cleopatra, accorgendosi della "somiglianza del mio stato di cuore con quello di Antonio" e dicendo tra sé: "Va proseguita quest'impresa; rifarla, se non può star così; ma in somma sviluppare in questa tragedia gli affetti che mi divorano". Il 16 giugno 1775 venne rappresentata per la prima volta al Teatro Carignano di Torino con successo.
Al fine di lavorare all'opera scrivendo senza perdere la concentrazione, Vittorio si impose una sorta di auto segregazione in cui si faceva legare alla sedia a leggere e scrivere dal servo Elia, così da non poter uscire di casa.
Fu in questo momento, grazie alla prima stesura di una tragedia e alla rappresentazione dell'opera, che Alfieri scoprì la vocazione letteraria, assalito dal grande amore della gloria e dal desiderio, con cui si apre la quarta epoca, "di farmi autor tragico".

Virilità

Il capitolo comprende gli anni che vanno dal 1775 al 1790, quando inizierà la continuazione della quarta epoca, e ha come tema centrale il racconto della carriera letteraria di Alfieri e degli studi intrapresi per recuperare gli anni perduti. Di fronte alle difficoltà dell'essersi accostato tardi agli studi e ai problemi linguistici, lo scrittore mostrò un tenace impegno e intraprese una serie di "viaggi letterari" in Toscana, al fine di impossessarsi della lingua viva, studiando senza sosta i versi del Sommo Poeta, del Petrarca, di Tasso e Ariosto.
Queste pagine, che cominciano dall'età di quasi ventisette anni, sono molto utili agli studiosi di letteratura per capire come egli realizzava le sue tragedie, scritte in endecasillabi sciolti e seguendo le unità aristoteliche. La stesura del testo prevedeva tre momenti, tre "respiri": ideare, trovare il soggetto, inventare trame e battute, caratterizzare i personaggi; stendere, fissare il testo in prosa, nelle varie scene e atti; verseggiare, trasporre tutto in endecasillabi sciolti. Il tutto era poi seguito dal lavoro connesso del ridurre e limare le parti e i personaggi superflui.
Così, dopo che "la recita della Cleopatra mi avea aperto gli occhi", Vittorio ideò le tragedie Filippo e Polinice, pubblicate più tardi nel 1783.
Impegnato nello studio della lingua italiana, nell'aprile del 1776 si recò "in Toscana per avvezzarmi a parlare, udire, pensare, e sognare in toscano", soggiornando a Pisa e Firenze. Nelle settimane in cui si fermò a Pisa iniziò la stesura "in sufficiente prosa toscana" dell'Antigone, inoltre tradusse Orazio e lesse Seneca. Verso la fine di giugno si trasferì a Firenze dove rimase sino a settembre. In un giorno d'agosto, trovandosi in un circolo di letterati, ebbe modo di sentire casualmente l'aneddoto storico di Garzia de' Medici, ucciso dal padre Cosimo I, episodio che ispirò la tragedia Don Garzia, pubblicata nel 1789.
Ad ottobre tornò a Torino, decidendo però ben presto di fare ritorno in Toscana e starvi più tempo. Arrivò così, nel 1777, a Siena, dove conobbe uno dei suoi più cari amici, il mercante Francesco Gori Gandellini, appassionato delle arti, delle lettere e di idee politiche illuminate, "la di cui dolce e cara memoria non mi uscirà mai dal cuore". Questi influenzò notevolmente le scelte letterarie dell'Alfieri, accostandolo alla lettura di Machiavelli e trovando così ispirazione per la tragedia La congiura de' Pazzi. Curioso, fa notare l'autore, è come Machiavelli gli sia stato consigliato per due volte nel suo percorso ed entrambe da due carissimi amici, prima lo aveva infatti letto grazie a D'Acunha.
Subito dopo scrisse in pochissimo tempo il trattato politico Della Tirannide, per poi tornare alle opere teatrali realizzando alcune tra le sue opere più rilevanti: Agamennone, Oreste e Virginia. Quest'ultima susciterà più avanti l'ammirazione di Vincenzo Monti.

"Degno amore mi allaccia finalmente per sempre".
Fu un anno felice il 1777 per l'Alfieri che, nell'estate trascorsa a Firenze, "mi era, senza ch'io 'l volessi, occorsa più volte agli occhi una gentilissima e bella signora, che per esservi anch'essa forestiera e distinta, non era possibile di non vederla e osservarla; e più ancora impossibile, che osservata e veduta non piacesse ella sommamente a ciascuno". Incontrò così la donna della sua vita, a cui fu legato sino alla morte, vale a dire Luisa Stolberg-Gedern, contessa d'Albany.

"Un dolce focoso negli occhi nerissimi accoppiatosi (che raro adiviene) con candidissima pelle e biondi capelli, davano alla di lei bellezza un risalto, da cui difficile era di non rimanere colpito e conquiso".
La donna, che aveva venticinque anni quando conobbe il poeta, era la moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendente giacobita al trono di Gran Bretagna. L'ennesima relazione con una donna sposata rischiava di finire come le altre se non fosse che il marito non fece scoppiare uno scandalo quando venne a conoscenza del tradimento e non sfidò a duello l'Alfieri. Carlo Edoardo perse definitivamente la donna, che già aveva deciso di seguire lo scrittore, quando, alcolizzato, tentò di ucciderla.
Nell'amata, interessata all'arte e alla letteratura, Vittorio non trovava un ostacolo alla sua ricerca di gloria, un disturbo alle sue occupazioni poetiche, come avvenuto con le altre, bensì "io ci ritrovava e sprone e conforto ed esempio ad ogni bell'opera; io, conosciuto e apprezzato un sì raro tesoro, mi diedi allora perdutissimamente a lei". Divenne così la sua musa ispiratrice e ancora oggi mentre si trova a scrivere queste righe, afferma, ella è lì accanto a lui e il loro amore non si spegne nemmeno con il passare degli anni e lo sfiorire della bellezza.

In questo periodo Alfieri decise di donare tutti i suoi beni e le proprietà feudali alla sorella Giulia riservandosi solo una parte del capitale, trasferendosi nel 1782 a Roma con la contessa. Intanto aveva lavorato alle tragedie Maria Stuarda, Ottavia e Timoleone. Durante il soggiorno romano portò a compimento anche Merope e Saul. I due innamorati si erano stabiliti a Villa Strozzi presso le Terme di Diocleziano, dove passarono delle giornate serene; Vittorio era solito studiare molto il mattino senza uscire di casa se non per un'ora a cavallo, la sera poi si riposava dalle fatiche dello studio in compagnia "di quella per cui sola io esisteva e studiava", andando a dormire non più tardi delle undici. "Un soggiorno più gaio e più libero e più rurale, nel recinto d'una grande città, non si potea mai trovare; né il più confacente al mio umore, carattere ed occupazioni. Me ne ricorderò, e lo desidererò , finch'io viva".
La tranquillità e la felicità di quei giorni non durarono però a lungo in quanto la loro relazione aveva suscitato scandalo, così lo scrittore fu costretto ad abbandonare la città, riprendendo a viaggiare, in preda alla tristezza per la distanza dall'amata. Si recò a Siena, per trovare conforto nel suo amico Francesco Gori, decidendo dopo tre settimane di permanenza, di avviarsi verso Venezia. Passò velocemente per Firenze, in quanto quei luoghi dove aveva conosciuto l'amata lo rendevano ora triste, poi Bologna e Ravenna, dove visitò la tomba di Dante, "e un giorno intero vi passai fantasticando, pregando, e piangendo". Durante il viaggio sentì il bisogno di scrivere rime d'amore, componendo quasi ogni giorno uno o più sonetti.
Al ritorno da Venezia, in cui incontrò Ippolito Pindemonte, a cui il Foscolo avrebbe dedicato il carme Dei sepolcri, si fermò a Padova al fine di visitare, cosa che non aveva fatto nelle precedenti due volte che vi era stato, la casa e la tomba di Petrarca ad Arquà. "Quivi parimente un giorno intero vi consecrai al pianto, e alle rime, per semplice sfogo del troppo ridondante mio cuore". Nuovamente a Bologna, passò per Ferrara, per compiere il quarto pellegrinaggio poetico, visitando la tomba dell'Ariosto; quella del Tasso l'aveva più volte contemplata a Roma. "Questi quattro nostri poeti, erano allora, e sono, e sempre saranno i miei primi, e direi anche soli, di questa bellissima lingua: e sempre mi è sembrato che in essi quattro vi sia tutto quello che umanamente può dare la poesia".
Il viaggio proseguì, "sempre piangendo e rimando", verso Milano, dove conobbe Giuseppe Parini.
Nell'aprile dell'anno 1784, dopo un terzo viaggio in Inghilterra, Vittorio poté riunirsi con l'amata in Francia, in segreto, presso la cittadina di Colmar. La donna aveva infatti ottenuto la separazione legale dal marito sebbene non l'annullamento. Qui compose la tragedia Mirra che, insieme al Saul, è ritenuta il suo capolavoro assoluto. Nella pubblicazione parigina del 1789 Alfieri appose un sonetto di dedica alla contessa d'Albany.
A settembre ricevette però la triste notizie della scomparsa dell'amico Francesco Gori, morto improvvisamente dopo sei giorni di malattia. Poco dopo dovette anche lasciare la contessa per fare ritorno in Italia; fu una separazione insopportabile e, arrivato a Siena, non riuscì a rimanerci per la mancanza del caro amico. In novembre si trasferì allora a Pisa per trascorrervi l'inverno. L'amata lo passò invece a Bologna. Si sarebbero ritrovati nel 1786 a Parigi.
Durante il soggiorno parigino le tragedie dell'Alfieri furono ripubblicate per opera dei famosi stampatori Didot. Nel 1788 con la morte di Carlo Edoardo Stuart, Vittorio e la contessa poterono finalmente vivere liberamente la loro relazione, decidendo però di non sposarsi.
Nell'anno 1790 viene composta questa prima parte della sua autobiografia, che prosegue sino all'anno 1803.

Continuazione della quarta epoca

Questa seconda parte, afferma l'autore nel proemietto introduttivo, sarà ben più breve della prima, poiché entrato nella vecchiaia, all'età di cinquantacinque anni. Egli riprese la narrazione tredici anni dopo averla interrotta, decidendo di tenere distinte le due redazioni dell'opera.
Il tema fondamentale è il rapporto diretto tra l'Alfieri e la Rivoluzione francese, del cui inizio nel 1789 fu testimone oculare, trovandosi a Parigi, "fetente ospedale, che riunisce gli incurabili e i pazzi". Le pagine sono un riassunto degli eventi visti con la "indegnazione" del Misogallo, cioè chi prova un sentimento di avversione verso i francesi, nonché titolo di un'opera satirica dell'autore, composta tra il 1789 e il 1798.
Dall'aprile dell'89 il poeta visse ogni giorno con timore per i primi tumulti che insorgevano in città, preoccupato anche di non riuscire a portare a termine le edizioni poi stampate dalla tipografia della famiglia Didot. La soddisfazione fu immensa quando il lavoro venne ultimato, ma la serenità non durò a lungo, infatti la situazione si metteva sempre peggio e la quiete lasciava spazio al dubbio, alla paura e ai tristi presagi per l'avvenire.
Alfieri partì dunque per il suo quarto viaggio a Londra, nel 1791, in compagnia dell'amata, lasciando la loro dimora parigina. Qui rincontrò Penelope Pitt, il suo secondo amore, di cui nel viaggio precedente non aveva mai sentito parlare. Anche in questo quarto soggiorno nessuna notizia, finendo per ripartire senza sapere nemmeno se fosse ancora viva. All'improvviso, però, proprio mentre si stava imbarcando, alzando gli occhi verso la spiaggia dove vi erano un certo numero di persone, "la prima che i miei occhi incontrarono, e distinguono benissimo per la molta prossimità, si è quella signora; ancora bellissima, e quasi nulla mutata da quella ch'io l'avea lasciata vent'anni prima appunto nel 1771. Credei a prima di sognare, guardai meglio, e un sorriso ch'ella mi schiuse guardandomi, mi certificò della cosa. [...] Tuttavia non le dissi parola". In seguito, molto colpito da quell'incontro inaspettato, Vittorio decise di scriverle una lettera anche perché era dispiaciuto "di vederla ancora menare una vita errante e sì poco decorosa al suo stato e nascita", sentendosi responsabile in prima persona perché il loro legame aveva provocato quello scandalo del duello e del processo che segnò la donna per sempre.
Prima di tornare a Parigi, Alfieri e la contessa d'Albany fecero un giro in Olanda, dove ella non era mai stata.
Nella capitale francese dovettero cercare ed ammobiliare una nuova casa, intanto lo scrittore traduceva Virgilio e Terenzio. Ad aprile del 1792 mancò sua madre all'età di settant'anni. L'arresto di Luigi XVI e le stragi del 10 agosto in cui venne preso il Palazzo delle Tuileries, dove risiedeva appunto la famiglia reale, convinsero Alfieri, per proteggere l'amata, a lasciare definitivamente la città una volta ottenuti i passaporti. Passando per Belgio, Germania e Svizzera, arrivarono sino in Toscana. A Firenze, nel 1793, si immerse totalmente nello studio dei classici greci, appassionandosi inoltre a recitare le proprie tragedie personalmente, preferendo per sé il ruolo di Saul. Decisivo fu l'incontro di alcuni giovani e una signora con i quali si intratteneva nel recitare i suoi componimenti nell'intimo ambiente domestico, senza palco, invitando pochissime persone, "facendo dei progressi non piccoli in quell'arte difficilissima del recitare. [...] Parimente la compagnia addestrata al mio modo migliorava di giorno in giorno". L'autore afferma così che se avesse avuto tempo e denari avrebbe potuto formare una vera e propria compagnia di attori tragici, sicuramente migliore di quelle che vi erano allora in Italia.
All'età di quarantasei anni, Vittorio si accostò anche ai testi di Omero e Pindaro, "meglio tardi che mai".
Nonostante i pregiudizi nei riguardi dei francesi e la composizione del Misogallo, continuò ad avere buoni rapporti con singole persone transalpine, come il pittore François-Xavier Fabre, esule a Firenze, intimo amico di Vittorio e dell'amata e loro ritrattista.

L'anno 1796 viene definito funesto dall'Alfieri per l'Italia a seguito dell'invasione dei francesi, che devastarono la Lombardia e il Piemonte. "Nel Misogallo, che sempre andava crescendo, e che anche ornai d'altre prose, io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco. Sogni e ridicolezze d'autore, finché non hanno effetto; profezie di inspirato vate, allorché poi l'ottengono".
Nel 1801 rivide a Firenze l'abate di Caluso, suo caro amico conosciuto a Lisbona. A lui è affidata tradizionalmente la chiusura di questo capolavoro che è la Vita, a seguito del congedo in cui l'autore si rivolge al lettore, con la lettera in cui racconta della morte dell'autore, dedicandola alla contessa d'Albany.
Vittorio Alfieri morì a Firenze il giorno 8 di ottobre dell'anno 1803, sepolto nella basilica di Santa Croce, non lontano da Michelangelo, sotto una semplice lapide in attesa del maestoso monumento funebre dello scultore Antonio Canova.