Diario del primo amore

Quella sera la vidi, e non mi dispiacque, ma le ebbi a dire pochissime parole, e non mi ci fermai col pensiero. Il Venerdí le dissi freddamente due parole prima del pranzo: pranzammo insieme, io taciturno al mio solito, tenendole sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto piú tosto bello, alquanto maggiore che se avessi contemplato una bella pittura. Cosí avea fatto la sera precedente, alla cena. La sera del Venerdí, i miei fratelli giuocarono alle carte con lei: io invidiandoli molto, fui costretto di giuocare agli scacchi con un altro: mi ci misi per vincere, a fine di ottenere le lodi della Signora (e della Signora sola, quantunque avessi dintorno molti altri) la quale senza conoscerlo, facea stima di quel giuoco. Riportammo vittorie uguali, ma la Signora intenta ad altro non ci badò; poi lasciate le carte, volle ch’io l’insegnassi i movimenti degli scacchi: lo feci ma insieme cogli altri, e però con poco diletto, ma m’accorsi ch’Ella con molta facilità imparava, e non se le confondevano in mente quei precetti dati in furia (come a me si sarebbero senza dubbio confusi) e ne argomentai quello che ho poi inteso da altri, che fosse Signora d’ingegno. Intanto l’aver veduto e osservato il suo giuocare coi fratelli, m’avea suscitato gran voglia di giuocare io stesso con lei, e cosí ottenere quel desiderato parlare e conversare con donna avvenente: per la qual cosa con vivo piacere sentii che sarebbe rimasta fino alla sera dopo. Alla cena, la solita fredda contemplazione. L’indomani nella mia votissima giornata aspettai il giuoco con piacere ma senza affanno né ansietà nessuna: o credeva che ci avrei trovato soddisfazione intera, o certo non mi passò per la mente ch’io ne potessi uscire malcontento. Venuta l’ora giuocai. N’uscii scontentissimo e inquieto. Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche con dispiacere, pressato da mia madre. La Signora m’avea trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde cercando fra me perché fossi scontento non lo sapea trovare. Non sentia quel rimorso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena il cuore, di non esserci ben serviti dell’occasione. Mi parea di aver fatto e ottenuto quanto si poteva e quanto io mi era potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel piacere era stato piú torbido e incerto, ch’io non me l’era immaginato, ma non vedeva di poterne incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della Signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre piú; e insomma la Signora mi premeva molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani, né io l’avrei riveduta. Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva né so di che, né anche fra le cose possibili vedo niente che mi possa appagare. Mi pasceva della memoria continua e vivissima della sera e dei giorni avanti, e cosí vegliai sino al tardissimo, e addormentatomi, sognai sempre come un febbricitante, le carte il giuoco la Signora; contuttoché vegliando avea pensato di sognarne, e mi parea di aver potuto notare che io non avea mai sognato di cosa della quale avessi pensato che ne sognerei: ma quegli affetti erano in guisa padroni di tutto me e incorporati colla mia mente, che in nessun modo né anche durante il sonno mi poteano lasciare. Svegliatomi prima del giorno (ne piú ho ridormito), mi sono ricominciati, com’è naturale, o piú veramente continuati gli stessi pensieri, e dirò pure che io avea prima di addormentarmi considerato che il sonno mi suole grandemente infievolire e quasi ammorzare le idee del giorno innanzi specialmente delle forme e degli atti di persone nuove, temendo che questa volta non mi avvenisse cosí. Ma quelle per lo contrario essendosi continuate anche nel sonno, mi si sono riaffacciate alla mente freschissime e quasi rinvigorite. E perché la finestra della mia stanza risponde in un cortile che dà lume all’androne di casa, io sentendo passar gente cosí per tempo, subito mi sono accorto che i forestieri si preparavano al partire, e con grandissima pazienza e impazienza, sentendo prima passare i cavalli, poi arrivar la carrozza, poi andar gente su e giú, ho aspettato un buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso, credendo a ogni momento che discendesse la Signora, per sentirne la voce l’ultima volta; e l’ho sentita.

Il sentir parlare di quella persona, mi scuote e tormenta come a chi si tastasse o palpeggiasse una parte del corpo addoloratissima, e spesso mi fa rabbia e nausea; come veramente mi mette a soqquadro lo stomaco e mi fa disperare il sentir discorsi allegri, e in genere tacendo sempre, sfuggo quanto più posso il sentir parlare, massime negli accessi di quei pensieri. A petto ai quali ogni cosa mi par feccia, e molte ne disprezzo che prima non disprezzavo, anche lo studio, al quale ho l’intelletto chiusissimo, e quasi anche, benché forse non del tutto, la gloria. E sono svogliatissimo al cibo, la qual cosa noto come non ordinaria in me né anche nelle maggiori angosce, e però indizio di vero turbamento.

Se questo è amore, che io non so, questa è la prima volta che io lo provo in età da farci sopra qualche considerazione; ed eccomi di diciannove anni e mezzo, innamorato. E veggo bene che l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io purtroppo (dico dell’amor tenero e sentimentale) ne sarò sempre schiavo. Benché questo presente (il quale, come ieri sera quasi subito dopo il giuocare, pensai, probabilmente è nato dall’inesperienza e dalla novità del diletto) son certo che il tempo fra pochissimo lo guarirà: e questo non so bene se mi piaccia o mi dispiaccia, salvo che la saviezza mi fa dire a me stesso di sí. Volendo pur dare qualche alleggiamento al mio cuore, e non sapendo né volendo farlo altrimenti che collo scrivere, né potendo oggi scrivere altro, tentato il verso, e trovatolo restio, ho scritto queste righe, anche ad oggetto di speculare minutamente le viscere dell’amore, e di poter sempre riandare appuntino la prima vera entrata nel mio cuore di questa sovrana passione.

La Domenica 14 di Decembre 1817