Alla stazione in una mattina d'autunno
Appartenente alla raccolta Odi barbare, il componimento di Giosuè Carducci rievoca una vicenda autobiografica. Parte della poesia è stata scritta nel 1875 dopo un incontro estivo tra il poeta e la donna amata, Lidia, e il resto nel 1876, ricordando un giorno d'autunno del 1873, quando i due innamorati si separarono salutandosi alla stazione.
«Ho l'animo triste; e non ho la minima voglia di far frasi intorno alla mia tristezza; ma ti dico che stamani, con l'ultimo rumore allontanantesi del treno che ti portava, a me pareva che fuggisse irreparabilmente la visione più dolce della mia vita irrequieta».
Le due parti hanno caratteristiche diverse: mentre quella scritta nel 1875 esprime la gioia dell'incontro, la parte restante è pervasa, invece, dalla tristezza e dalla malinconia del doversi salutare, in un clima autunnale che rende bene l'idea dell'animo addolorato. «È tutto umido e freddo e noioso come la pioggia che stroscia al di fuori. Ripenso alla triste mattina del 23 ottobre 1873, quando ti accompagnai alla stazione, e tu mi t'involasti in un'orribile carrozza di seconda classe, e il faccin mi sorrise l'ultima volta incorniciato in un'infame abominevole finestrella quadrata; e poi il mostro, che si chiama barbaramente treno, ansò, ruggì, stridé, si mosse come un ippopotamo che corra fra le canne, e poi fuggì come una tigre».
La locomotiva, "l'empio mostro" - che qui compare per la prima volta in un componimento letterario - è metafora dell'inesorabile trascorrere del tempo, che tutto porta via, nonché dell'avvento di una grigia modernità in cui il narratore non si ritrova. L'amata, al contrario, è in tono stilnovista portatrice di salvezza e speranza, di luminosità in uno scenario plumbeo rischiarato solamente dai sogni del poeta:
«più belli del sole i miei sogni / ricingean la persona gentile».
Oh quei fanali come s’inseguono
accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid’ aere,
fremea l’estate quando mi arrisero:
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.
La stazione di Saint-Lazare - Claude Monet - 1877