Stabat nuda aestas

Questa lirica dallo spiccato erotismo di Gabriele d'Annunzio, datata intorno al 1903, è contenuta nella terza sezione di Alcyone, quella dedicata all'estate piena e rappresenta l'apparizione di una bellissima donna, personificazione dell'estate. La creatura divina corre nella pineta ed il poeta cerca di inseguirla; il suo piede è piccolo, la "schiena falcata" e i "capei fulvi". Giunta in riva al mare, la donna inciampa e cade, svelando tutta la "immensa nudità" del proprio corpo. Il poeta allude qui ai propri amori travolgenti, lui che, novello Ovidio, rinnova i sentimenti cantati nel passato e diviene cacciatore come Apollo, ma le sue ninfe non gli si sottraggono. Il titolo del componimento richiama infatti un verso delle Metamorfosi, tuttavia se per il poeta latino l'Estate giaceva seduta accanto al trono del Sole, in un atteggiamento invero e piuttosto decorativo, in d'Annunzio l'Estate è sfuggente e misteriosa, richiamando subito alla mente l'immagine del mito di Apollo e Dafne anche nell'idea di una rincorsa amorosa avvolta nel panismo della canicola estiva, capace di restituire l'idea astratta dell'Estate in sembianze umane e, viceversa, di dissolvere l'uomo nella natura circostante, rendendolo divino come in Meriggio.
La prima stanza della poesia è facilmente divisibile in due parti, con la sequenza dei primi quattro versi, ricchi di enjambements, caratterizzata dall'apparizione della donna e da un ritmo veloce, mentre dal quinto all'ottavo verso l'immobilità del paesaggio estivo - quasi in un locus amoenus che è presagio della presenza divina - viene restituita dal ritmo più lento e dalla brevità dei periodi delle frasi.
Nella seconda stanza il ritmo cresce progressivamente, restituendo la velocità della corsa da parte della dea, mentre nel finale rallenta nuovamente per giungere sino all'incontro, avvenuto a seguito della caduta sulla marina.
La lirica è posta nella raccolta appena prima del terzo ditirambo, anticipandone la tematica della metamorfosi dell'estate in una donna innamorata e ardente di desiderio. Ogni poesia che anticipa il ditirambo trae il proprio titolo da un componimento di Ovidio, testimonianza della precisa architettura formale dell'Alcyone.

Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l'aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la résina gemette giù pe' fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l'ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell'argento pallàdio trasvolare
senza suono. Più lungi, nella stoppia,
l'allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch'io per nome la chiamai.

Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea mèsse nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l'acque.
Il ponente schiumò ne' suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.