Meriggio

Componimento centrale di Alcyone composto da Gabriele d'Annunzio nell'estate del 1902, è uno dei più chiari esempi del concetto di panismo, vale a dire la totale identificazione, propria del superuomo, con la natura. Nel pieno dell'estate, in una giornata afosa e serena, il poeta giace immobile dinanzi al mare, contemplando la bellezza nei pressi della foce dell'Arno e descrivendola in modo sublime nelle prime due strofe. "Bonaccia, calura, per ovunque silenzio" intorno a lui, continua nella terza strofa, in una perfetta armonia nella quale i suoi sensi possono adeguarsi agli elementi della natura circostante e divenirne parte. La completa solitudine in questo scenario silenzioso - dove non vi è nemmeno la donna amata protagonista delle precedenti poesie come La sera fiesolana e La pioggia nel pineto - accentua la sensibilità dell'io lirico in un'esperienza totale e totalizzante, quasi senza ritorno, che è propria, nella quarta strofa, della metamorfosi panica che rende "divina" la vita del poeta.
Numerosi sono gli echi danteschi, come quando, nella prima strofa, cita le isole Capraia e Gorgona che l'Alighieri nominò verso la conclusione della cantica dell'Inferno, narrando con sdegno la cruenta morte del conte Ugolino e dei suoi figli; nella strofa seguente la quiete della foce dell'Arno è paragonata a quella del Letè, uno dei fiumi del Purgatorio; infine il componimento si chiude con la trasformazione del protagonista, che ha ormai vinto ogni limite umano, in una condizione che richiama il "trasumanar" dantesco con cui comincia, nel Canto I, l'ascesa nei cieli del Paradiso.
Vi è infine il tema del naufragare nel silenzio dell'infinito e della natura, del perdersi nelle cose più grandi come in quelle più piccole, topos romantico e leopardiano che diviene però pagano e ancor più dolce, mentre panismo e superomismo si danno la mano come solamente la poesia di d'Annunzio è capace di fare. 

A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se ascolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l'isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d'aria nell'aria,
l'isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro
dal loro orgoglio assunte.

La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d'aura. La fuga,
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l'oblìo silente; e le canne
non han sussurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.

Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L'Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell'uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m'abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio volto
s'indora dell'oro
meridiano,
che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dall'onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s'affina.

E la mia forza supina
si stampa nell'arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l'alpi e l'isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch'io nomai
non han più l'usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome né sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.

E la mia vita è divina.