Dino Campana

"La mia vita era tutta un'ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull'abisso".

Dino Campana è considerato una delle figure più rilevanti di inizio Novecento, l'ultimo dei poeti "maledetti".
Nato nel 1885 a Marradi, presso Firenze, era figlio di Giovanni Campana, maestro elementare, e di Francesca Luti, detta Fanny, donna severa e molto credente, attaccata in modo morboso al figlio Manlio, fratello minore di Dino.
Finiti il ginnasio presso i Salesiani e il liceo a Faenza, studiò chimica a Bologna e Firenze, manifestando l'incapacità di adattarsi alla normalità, preferendo viaggiare dapprima in Italia e in seguito all'estero, coltivando la passione letteraria.
Già nel 1905 venne ricoverato per qualche mese nel manicomio di Imola in quanto la sua vita errabonda, il bisogno di fuggire e l'impeto con cui discuteva di poesia e filosofia furono visti dalla famiglia, dal paese e infine anche dalle autorità come segni lampanti della sua pazzia. Così da quel giorno ad ogni sua fuga seguiva la triste esperienza del ricovero.
In un periodo caratterizzato dalla crisi della poesia e del ruolo del poeta, allontanandosi da tanti colleghi legati alle avanguardie, Campana, così come Giuseppe Ungaretti, credette profondamente nella forza della parola poetica, nella sua capacità di esprimere ancora, in ogni tempo e in qualsiasi contesto sociale, significati e valori assoluti, universali. Questa visione alta e sublime della poesia venne ripresa dal Simbolismo francese, in particolare da un autore a cui la sua vicenda personale viene spesso accostata, cioè Arthur Rimbaud. Il tema del viaggio, metafora poetico-esistenziale, che spinge il poeta verso terre lontane alla ricerca di una terra sognata, intuita solo per mezzo della poesia, venne vissuto però in modo diverso dai due autori. Se per Rimbaud, una volta abbandonata la letteratura, rappresentò una scelta, per Campana era invece un'esigenza, un bisogno di fuggire, che lo portò, dopo un vagabondare privo di meta, verso la follia. Nonostante ciò per tutta la vita credette nella poesia senza mai lasciarla, come per tenersi aggrappato ad un'ultima possibilità di salvezza nell'oscura e triste esistenza, nella speranza di lasciare un segno nell'eterno, dopo che anche l'esperienza amorosa si era conclusa amaramente. Campana conobbe infatti nel periodo della Prima guerra mondiale, mentre non si trovava al fronte a causa dei problemi psichici, la scrittrice Sibilla Aleramo, donna mondana dal carattere opposto del poeta, frequentatrice dei nobili salotti letterari. A Milano si avvicinò ai Futuristi e durante un soggiorno a Parigi conobbe Gabriele d'Annunzio, a cui dedicò il poema Endimione, e Apollinaire. Tra le numerose e brevi relazioni amorose che visse le più importanti furono quelle con Giovanni Papini, fondatore della rivista fiorentina la "Voce", Clemente Rebora, Umberto Boccioni e Salvatore Quasimodo. La causa della fine del tormentato rapporto con Campana fu la visita da un noto psichiatra a cui la donna si rivolse contro la volontà dell'amante.
"Mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato. Altre parole non trovo. Non ho più lagrime. Perché togliermi anche l’illusione che una volta tu mi abbia amato è l’ultimo male che mi puoi fare".

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose

P.S. E così dimenticammo le rose.

Sibilla Aleramo

Il bellissimo componimento dedicato all'amata Sibilla è forse uno dei punti più alti della poesia di Campana. La vicenda amorosa viene espressa attraverso l'immagine delle rose, simbolo dell'amore che sboccia e brilla con il sole d'estate, ma appassisce così velocemente, in un solo istante, se non viene curato, protetto nel freddo inverno, alimentato dai baci, dalla tenerezza. Questa poesia, capolavoro di bellezza e malinconia, ha ispirato molti altri componimenti e anche canzoni; l'autore è consapevole che non potrà mai più dimenticare quell'amore vissuto così intensamente e ora perduto, quel sentimento che ha uniti i due amanti con passione condividendo il viaggio della vita, espresso dal verso "erano le sue rose erano le mie rose", voltandosi ora indietro nel rimpianto di quel viaggio che chiamavano amore, di quei momenti in cui si cercavano con passione: "le cercavamo insieme". L'insegnamento che ci lascia il poeta è quello di vivere fino in fondo le nostre emozioni, senza timore, ricordandoci però della loro precarietà, quindi senza dimenticarci di custodirle gelosamente nell'intimo del nostro cuore, di proteggerle, perché così delicate, preziose, troppo importanti per vederle appassire in un attimo.

Nel 1913 Campana, a Firenze, aveva consegnato a Giovanni Papini e Ardengo Soffici il suo manoscritto dal titolo Il più lungo giorno. I due intellettuali fiorentini non presero però in considerazione l'opera, perdendola, senza nemmeno averla letta. Mesi dopo, non avendo ricevuto risposta, Campana tornò a Firenze da Marradi per riprendersi ciò che gli apparteneva. Papini disse di non averlo e lo mandò da Soffici, il quale sosteneva addirittura di non esserne mai entrato in possesso.
Tutto ciò compromise la mente già instabile di Campana, in quanto l'anno successivo decise di mettersi a riscrivere completamente l'opera, attraverso un grande sforzo della memoria per recuperare le poesie, ma soprattutto l'ispirazione che le aveva realizzate. In qualche mese, lavorando anche di notte ed a costo di un enorme sforzo mentale, riuscì a riscrivere il libro, con numerose modifiche ed aggiunte. Così uscì quella che è la sua unica raccolta, il suo capolavoro, intitolato Canti Orfici. Pubblicato a proprie spese, raccoglie componimenti in prosimetro, cioè quel genere che alterna in modo equilibrato prosa e versi, i cui temi fondamentali sono la notte, il viaggio e l'onirico; temi affrontati nella loro completezza in bilico tra follia e realtà.
Il suo stile non guarda solo al Simbolismo francese e a Rimbaud, ma anche a Charles Baudelaire, alla filosofia di Friedrich Nietzsche e alla grande tradizione toscana dal Trecento, da Dante a Cavalcanti, fino ad arrivare alla poesia di Ugo Foscolo, in quanto un autore come Giacomo Leopardi non era ancora molto diffuso, nonostante i temi del notturno, del ricordo e del viaggio del poeta errante sarebbero sicuramente stati apprezzati dal poeta di Marradi. Campana riuscì inoltre a mescolare nel suo stile i due più grandi autori a cavallo tra Ottocento e Novecento, Gabriele d'Annunzio e Giosuè Carducci.
Le sue sofferenze terminarono nel 1932, quando si spense in manicomio a soli 46 anni. La maggior parte della sua produzione fu pubblicata postuma e pian piano iniziò ad essere letto e apprezzato; uno dei suoi primi estimatori, ad oggi il più autorevole, fu Eugenio Montale.


Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera: nella chiesetta solitaria, all'ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo.

Dino Campana

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Giacomo Leopardi

Fu un lampo... poi la notte. Fuggitiva beltà,

nel cui sguardo, all'istante, l'anima mia risorse,

non ti vedrò più dunque che nell'eternità?

Altrove, e via di qui! Troppo tardi! mai, forse!

Poiché corriamo entrambi a ignoto e opposto sito,

o tu che avrei amato, o tu che l'hai capito!

Charles Baudelaire

Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo fascino si approfondiva sotto la frangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d'amarezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo.

Dino Campana

Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender non la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova
uno spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.

Dante

E ne l'anima ancor veggovi quale

io da prima vi amai. Alta e pieghevole

passaste, sorridente e luminante,

pe 'l chiaro gelo del mattin iemale.

Gabriele d'Annunzio

Nelle azzurre sere d'estate, andrò per i sentieri,
punzecchiato dal grano, a pestar l'erba tenera:
trasognato sentirò la frescura sotto i piedi
e lascerò che il vento mi bagni il capo nudo.
 
Io non parlerò, non penserò più a nulla:
ma l'amore infinito mi salirà nell'anima,
e me ne andrò lontano, molto lontano come uno zingaro,
nella Natura, lieto come con una donna.

Arthur Rimbaud

Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l'evanescente come l'amore evanescente, la donatrice d'amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell'ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l'antica amica, l'eterna Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore.

Dino Campana

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
giá tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, ché t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e giá non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sí benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio.

Giacomo Leopardi

Come son belli i soli nelle calde serate,
quanta luce nel cielo, che ali dentro il cuore!
Chino su te sentivo, o amata fra le amate,
alitar del tuo sangue il recondito odore...
Come son belli i soli nelle calde serate!

Un muro era la notte, invisibile e pieno.
Io pur sapevo al buio le tue pupille scernere,
e bevevo il tuo fiato, dolcissimo veleno,
e i piedi t'assopivo, entro mani fraterne.
Un muro era la notte, invisibile e pieno.

Io so come evocare i minuti felici,
e rivivo il passato, rannicchiato ai tuoi piedi:
è infatti nel tuo mite cuore e nei sensi amici
tutta chiusa la languida bellezza che possiedi.
Io so come evocare i minuti felici...

O promesse, o profumi, o baci senza fine,
riemergerete mai dai vostri avari abissi,
come dal mare, giovani e stillanti, al confine
celeste i soli tornano dopo la lunga eclissi?
- O promesse, o profumi, o baci senza fine!

Charles Baudelaire

O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fiumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d'amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d'amore di viola: ma tu nella sera d'amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze.
Ricordo cara: lievi come l'ali di una colomba tu le tue membra posasti sulle mie nobili membra. Alitarono felici, respirarono la loro bellezza, alitarono a una più chiara luce le mie membra nella tua docile nuvola dai divini riflessi. O non accenderle! non accenderle! Non accenderle: tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno: Amore, primavera del sogno sei sola sei sola che appari nel velo dei fiumi di viola. Come una nuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuore, o resta o resta o resta! Non attristarti al Sole!
Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull'infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina.

Dino Campana

..."E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te".

Friedrich Nietzsche