Raffaello in Vaticano

Estate dell'anno 1508.

Papa Giulio II della Rovere chiama a Roma il fiorentino Michelangelo Buonarroti e il giovane Raffaello Sanzio da Urbino: è il momento più alto nella storia universale delle arti.
Il pontefice, importantissima figura di mecenate nel Rinascimento, aveva deciso di iniziare i lavori di ricostruzione della basilica di San Pietro, intenzionato a realizzare il più grande tempio della cristianità, dimostrando un'eccezionale sicurezza nella scelta degli operatori: da Donato Bramante a Michelangelo, da Raffaello a Baldassarre Peruzzi, in quegli anni gravitarono a Roma i migliori artisti dell'epoca.

Ritratto di Giulio II - Firenze, Galleria degli Uffizi - 1512

Il primo architetto ad arrivare a Roma al servizio del papa fu Bramante, che prima lavorava a Milano, figura decisamente influente nei confronti del papa. Fu proprio lui a consigliare a Giulio II il concittadino Raffaello che, appena venticinquenne, era già considerato lo stupore del secolo.

Così nelle sue Vite Giorgio Vasari introduce la figura del Sanzio: Quanto largo e benigno si dimostri talora il cielo nell’accumulare in una persona sola l’infinite richezze de’ suoi tesori e tutte quelle grazie e’ più rari doni che in lungo spazio di tempo suol compartire fra molti individui, chiaramente poté vedersi nel non meno eccellente che grazioso Raffael Sanzio da Urbino. Il quale fu dalla natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole alcuna volta vedersi in coloro che più degl’altri hanno a una certa umanità di natura gentile aggiunto un ornamento bellissimo d’una graziata affabilità, che sempre suol mostrarsi dolce e piacevole con ogni sorte di persone et in qualunche maniera di cose. Di costui fece dono al mondo la natura quando vinta dall’arte, per mano di Michelagnolo Buonarroti, volle in Raffaello esser vinta dall’arte e dai costumi insieme.

Il dipinto ci mostra i tre protagonisti voluti da Giulio II, cioè Bramante, intento a mostrare al pontefice il progetto per la nuova basilica, e ai suoi lati Raffaello e Michelangelo.
Decisivo per la formazione di Raffaello era stato il padre, Giovanni Santi, anch'egli pittore, in grado di far crescere la vocazione artistica del figlio ed aiutarlo nella scoperta del proprio talento. Nel giovane confluirono la squisita raffinatezza della corte di Urbino, l'eleganza e le esatte proporzioni di Piero della Francesca, infine l'armoniosa bellezza e la dolcezza delle forme di Pietro Perugino, della cui prestigiosa bottega poté far parte in giovane età. Tutto ciò è visibile nel suo capolavoro giovanile, lo Sposalizio della Vergine, conservato alla Pinacoteca di Brera di Milano, tema con il quale si confronta e arriva a superare il maestro umbro.
Prima di recarsi a Roma Raffaello rimase per quattro anni a Firenze, dove poté conoscere Leonardo da Vinci, il quale lo accolse nella sua bottega, divenendo per lui una figura paterna.
Si dice, come ci mostra questo disegno, che Raffaello fu il primo a cui Leonardo mostrò un ritratto di donna enigmatico a cui stava lavorando in quell'anno: la Gioconda. Rimasto senza parole dinanzi al quadro, ne ricevette un'influenza decisiva nel suo stile, soprattutto nel ciclo delle sue bellissime Madonne.

Il carattere gentile, il suo essere dolce e ben disposto con tutti e la nobile formazione lo hanno sicuramente favorito nella sua carriera, al punto che, una volta giunto a Roma, venne subito incaricato da Giulio II di decorare i propri appartamenti privati, quelli che da quel momento il mondo conoscerà come le Stanze di Raffaello. Michelangelo, intanto, avrebbe dovuto affrescare la volta della Cappella Sistina. Fu Bramante a consigliare al papa di affidare a Michelangelo l'immensa opera pittorica della volta, cercando così di metterlo in difficoltà sia per l'incredibile estensione della parete, sia perché non era esperto nell'uso dei colori a fresco. Il Buonarroti, scultore, dovette così sfidare Raffaello nella sua stessa arte in cui era ritenuto insuperabile, "divino". Non poteva però tirarsi indietro, non avrebbe mai permesso ad un giovane di rubargli la scena. L'immagine seguente ci mostra Raffaello, circondato da un gruppo di artisti suoi ammiratori, che ha rapito l'attenzione del papa, in alto, mentre l'ombroso e misantropo Michelangelo sembra farsi da parte, chiudendosi in quella solitudine che lo portò a realizzare, in un vero e proprio corpo a corpo con la parete, la meravigliosa volta.
Inizia così una delle maggiori sfide della storia dell'arte, quella tra Raffaello e Michelangelo, un duello fatto di rivalità ma allo stesso tempo di stima reciproca senza il quale nessuno dei due sarebbe arrivato a tanto.

Giunto il momento di entrare nelle Stanze bisogna fare una scelta narrativa, in quanto spiegare ogni singolo angolo dipinto, ogni gesto, ogni significato, vorrebbe dire perdersi nella grandezza e nella profondità dell'arte. Ciò vale anche quando si visitano concretamente questi luoghi, il cui tempo che abbiamo a disposizione non è mai abbastanza, per questo varrebbe la pena recarsi ad ammirarle più volte.

Quando ci si trova nella Stanza della Segnatura lo sguardo si rivolge immediatamente alla Scuola di Atene, ancor più precisamente ai due filosofi posti al centro di un edificio che è la prefigurazione del progetto bramantesco per la nuova basilica di San Pietro.
A sinistra Platone, che ha le fattezze del maestro di Raffaello, Leonardo da Vinci, solleva il dito verso l'alto ad indicare il cielo, il Bene, fondamento base del suo filosofare; vicino a lui Aristotele tende la mano verso la terra, emblema della conoscenza concreta del suo pensiero. Con la semplicità di due gesti il pittore è riuscito così a sintetizzare il pensiero delle due scuole filosofiche da cui discendono tutte le altre.

Platone rappresenta dunque la filosofia idealista, mentre Aristotele quella sperimentale. Attorno a loro vi sono i massimi pensatori dell'antichità, alcuni dei quali raffigurano artisti contemporanei, a sottolineare il grande impegno dell'arte quale nobile disciplina umanistica.
A sinistra, seduto in lettura, vi è Pitagora, e alle sue spalle il musulmano Averroè, col turbante. Più in alto Socrate discute con un gruppo di allievi, tra i quali Alcibiade, Eschine e Senofonte, mentre al centro, sdraiato sui gradini, è Diogene.

Il gruppo di destra è costituito da Bramante, che è Euclide, chinato a spiegare un teorema, mentre Zoroastro, fondatore dell'astronomia, nei panni di Baldassar Castiglione, tiene in mano un globo celeste e Tolomeo un globo terracqueo. Al tempo, infatti, la filosofia comprendeva anche le scienze, cercando cause e spiegazioni del mondo fisico.
Vicino all'autoritratto di Raffaello, il quale è rivolto verso lo spettatore, vediamo il Sodoma, o forse, come sostengono alcuni, Giovanni Santi, padre e primo maestro dell'artista.
Prima di Raffaello nella stessa stanza il Sodoma aveva lavorato alla decorazione di gran parte della volta. Raffaello prese il suo posto decidendo di omaggiarlo vicino a sé in quello che è il suo capolavoro, a testimonianza della sua nobiltà d'animo e di una sensibilità fuori dal comune.

Vi è però un altro grande omaggio ad un pittore contemporaneo, di più, al rivale che a pochi metri di distanza stava lavorando all'impresa della volta della Sistina. È il solitario e tenebroso Eraclito, posto in primo piano, niente meno che Michelangelo.

Dietro questa figura si nasconde una storia bellissima che non fa che incrementare la leggenda sulla sfida tra i più grandi pittori del Rinascimento.
Nel 1511, quando Raffaello aveva da poco concluso l'affresco, papa Giulio II decise di scoprire metà della meravigliosa volta michelangiolesca, contro il volere del Buonarroti che voleva prima portarla a termine. Quando Raffaello entrò rimase così impressionato dalle novità di quell'artista tanto incompreso da decidere di dimostrargli tutta la sua ammirazione aggiungendo a mano libera il suo ritratto tra i grandi pittori e pensatori dell'umanità. È per questo che Eraclito ha le fattezze anatomiche delle figure michelangiolesche. A Milano, presso la Pinacoteca Ambrosiana, si può verificare tale tesi osservando il cartone preparatorio dell'affresco, in cui si nota il dettaglio dell'assenza di Michelangelo.

Sono tanti, dunque, gli aneddoti di questo dipinto, come in ogni capolavoro dell'arte; non meno importante è anche, tornando al centro della composizione, la figura di Aristotele, il cui volto dovrebbe essere quello di Bastiano da Sangallo, amico e collaboratore del Sanzio, noto soprattutto come maestro di prospettive. Oltre al legame di amicizia si può ipotizzare che l'Urbinate si sia fatto aiutare o almeno consigliare da un vero specialista delle tecniche prospettiche. In questo modo, del tutto inaspettato, anche il ricordo di un pittore al tempo non molto celebre, come Bastiano da Sangallo, divenne eterno nella storia dell'arte, per sempre a fianco di Leonardo.

Infine va ricordato un altro dettaglio meno conosciuto, ossia la zoccolatura di affreschi policromi posti al di sotto dei dipinti della sala come squisiti motivi decorativi. Il lavoro, che simula il bronzo dorato, è opera di Perin del Vaga, uno degli allievi più dotati della bottega del maestro da Urbino.

La Stanza della Segnatura è dunque il centro del sapere umanistico, luogo nel quale la riflessione sull'uomo ha raggiunto la vetta più alta. Essa era adibita a biblioteca papale e i quattro dipinti sono la rappresentazione dei settori che la costituivano: la filosofia, la teologia, il diritto e la poesia.

Di fronte alla Scuola di Atene, uguale per dignità e per dimensioni, troviamo la Disputa del Sacramento, l'affresco che più di ogni altro raffigura l'apice della conoscenza che l'umana mente a fatica riesce a comprendere, ma di cui può divenire parte per volere divino. Il dipinto è infatti dedicato al mistero del Verbo Incarnato, che l'uomo non può che limitarsi a contemplare, come fanno i personaggi raffigurati, affidandosi alla propria fede più intima.
Il titolo dell'affresco, che deriva dalle Vite del Vasari, appare inadeguato osservando l'opera, nella quale non assistiamo ad una disputa, bensì ad una silenziosa contemplazione del mistero.
Al centro della composizione le tre persone della Santissima Trinità sono poste in asse con l'ostia consacrata, e visibilmente la incarnano. Ai lati del Cristo vi sono la Vergine e San Giovanni, e sullo stesso registro si possono riconoscere San Pietro, Adamo, Mosè con le tavole della legge, San Paolo.
In basso alcuni tra santi, pontefici, dottori della chiesa e personaggi storici tra i più importanti dell'umanità, riuniti in un'assemblea, sono come stupiti e senza parole dinanzi a quello che è il concetto teologico più vertiginoso, ma che Raffaello raffigura con una chiarezza straordinaria. Tra loro vediamo Sant'Ambrogio e Sant'Agostino, Tommaso d'Aquino, San Bonaventura, il pittore Beato Angelico, Dante Alighieri, e più dietro, col cappuccio, l'allora controversa figura di Girolamo Savonarola.
Alcuni cercano risposte nei loro libri, altri appaiono smarriti o raccolti nella loro spiritualità: un angelo del Signore, a sinistra, porta però conforto, invitando anche noi che osserviamo l'opera all'adorazione eucaristica. 

La parete della poesia, ossia della bellezza che è l'ombra di Dio sulla terra, espressa per mezzo delle parole dei poeti, è rappresentata dal Parnaso, il monte che, secondo la mitologia greca, è la dimora delle Muse. Al centro, seduto sulla sommità del colle, Apollo, coronato di alloro, è intento a suonare la lira. Intorno a lui vi sono i grandi autori del passato, a partire da sinistra, dove seduta in primo piano vi è Saffo, la poetessa dell'amore. Raffaello, sensibile a questo sentimento, raffigura anche Francesco Petrarca, colui che ha dedicato un intero capolavoro, il Canzoniere, all'amore per Laura.
Più in alto Dante, con la consueta palandrana rossa, guarda verso il maestro Virgilio, e in mezzo a loro vi è il cieco Omero. A destra sono rappresentati poeti più recenti, come, secondo un'ipotesi, lo stesso Michelangelo, autore di celebri componimenti, ma anche l'Ariosto e Giovanni Boccaccio.

Facendo un passo indietro nel normale percorso dei Musei Vaticani, entriamo nella Stanza di Eliodoro, affrescata però qualche anno dopo rispetto alla Stanza della Segnatura.
Avvolto nel silenzio e nel mistero della notte, un affresco diviso in tre scene rapisce immediatamente la nostra attenzione. È la Liberazione di San Pietro, episodio narrato negli Atti degli apostoli. Al centro un angelo radioso appare in sogno a Pietro e lo porta fuori dalla cella, come si vede a destra, mentre le guardie sono cadute in un sonno profondo. A sinistra, invece, è la luna a rischiarare il buio della notte in quello che è il notturno più bello della storia dell'arte. Tale è il Raffaello raffinatissimo che ispirò la Pietà di Sebastiano del Piombo, nonché Federico Zuccari nella Cappella Paolina, e che divenne precursore persino di Caravaggio.

Il successo conclamato di Raffaello arrivò quando venne eletto papa Leone X Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, che nominò l'artista primo architetto della fabbrica di San Pietro. Inoltre il pontefice volle legare il suo nome alla Cappella Sistina, prima di allora simbolo della famiglia Della Rovere, con Sisto IV che l'aveva fatta edificare commissionando gli affreschi delle pareti laterali, mentre suo nipote Giulio II aveva chiamato Michelangelo per dipingere la volta.

Ritratto di Leone X - Firenze, Galleria degli Uffizi - 1518

Leone X decise così di donare una serie di preziosi arazzi provenienti da Bruxelles i cui disegni furono chiesti a Raffaello. Questi sarebbero stati usati nella cappella magna solo durante le cerimonie solenni, posti nel registro più basso delle pareti, sotto agli affreschi dei grandi professionisti umbri e toscani del Quattrocento, vale a dire Perugino, Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli e Cosimo Rosselli.

Era il giorno di Santo Stefano dell'anno 1519 quando Leone X, pieno d'orgoglio, decise di mostrare a tutti lo splendore di quei ricchi tessuti, con la Sistina interamente ricoperta di capolavori, "opera certo più tosto di miracolo che d’artificio umano", come scrive il Vasari. Fu il trionfo di Raffaello.

Quello che più affascina ancora oggi, osservandoli alla Pinacoteca Vaticana, è come un tessuto possa divenire così simile ad un dipinto, quasi da non riuscire a riconoscerne la differenza, tale è la perfezione.

Raffaello aveva lavorato senza sosta in Vaticano come consapevole del suo destino, che lo avrebbe visto morire pochi mesi dopo la collocazione degli arazzi in Sistina.
Si ammalò di febbri continue, afferma Vasari, ma nonostante la salute cagionevole riuscì a realizzare un'ultima opera, una pala custodita alla Pinacoteca Vaticana per la quale si meritò l'appellativo di "divino": la Trasfigurazione.

In alto, sul monte Tabor, Cristo, avvolto di luce tra i due profeti, Mosè ed Elia, si trasfigura, cioè appare nella sua virilità. Gli apostoli sono sconvolti e increduli di fronte a questa straordinaria visione. Nella parte sottostante vi è una scena oscura e tenebrosa, portata a termine dall'allievo Giulio Romano a seguito della morte del maestro. Si tratta dell'episodio evangelico, legato alla Trasfigurazione, del ragazzo indemoniato liberato da Gesù. Il momento è concitato, drammatico, con alcuni che cercano di sostenere il giovane uomo e confortare la madre. L'Evangelista, a sinistra, indica verso l'alto, come a dire che solo Cristo trasfigurato salva.

Raffaello morì mentre stava dipingendo il volto di Gesù, il più bello della storia dell'arte. È davvero suggestivo pensare che questo giovane e bellissimo uomo, dal talento inarrivabile, concluse così il suo percorso artistico, dipingendo la vittoria sulla morte, l'infinito che trionfa.

La città di Roma e l'intera corte pontificia fu commossa dalla notizia della scomparsa del divino artista e al suo letto di morte, vicino al quale fu posta la pala della Trasfigurazione, si recarono in tantissimi, tra cui l'amata Fornarina, distrutta dal dolore, il poeta Pietro Bembo, e forse, come si vede da questa immagine, lo stesso Michelangelo. 

Era il 6 aprile dell'anno 1520, venerdì santo, probabilmente lo stesso giorno in cui il pittore venne al mondo. Il suo corpo fu poi portato, come da suo ultimo desiderio, al Pantheon, dove ancora oggi riposa. L'epitaffio scritto dal Bembo recita:

"Qui riposa Raffaello, da cui, finché visse, la Natura temette di essere vinta, e ora che egli è morto, teme di morire con lui"...

La prestigiosa bottega del Sanzio passò in eredità agli allievi Giulio Romano e Giovan Francesco Penni, che, insieme agli altri allievi diretti, tra cui Giovanni da Udine, Raffaellino del Colle, Perin del Vaga e Polidoro da Caravaggio, portarono avanti i suoi insegnamenti, rendendo eterna la sua esistenza. Perché Raffaello è stato veramente, come afferma l'ex direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, il "maestro dei maestri", ancor di più, "scuola del mondo", con un'influenza che a cominciare dai suoi allievi, passando per Annibale Carracci e Guido Reni, giunge sino a Nicolas Poussin, David e Ingres, facendoci sentire ancora oggi felici di esser vivi e di poter contemplare tanta bellezza.

Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro.

Dante Alighieri


Scritto in occasione dei cinquecento anni dalla morte di Raffaello.
6 aprile 1520 - 6 aprile 2020

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