Michelangelo e Stendhal
Numerosi sono stati gli artisti e intellettuali che trassero ispirazione dal genio di Michelangelo Buonarroti, non solamente contemplando l'eterna meraviglia delle sue opere, dalla Pietà Vaticana, alla volta della Cappella Sistina, passando per il David e il Giudizio finale, ma anche dalla sua vita, avventurosa e drammatica al punto da affascinare i suoi contemporanei come i romantici ottocenteschi, ma che è ancora oggi attuale per ogni anima sensibile interessata alle vicende legate alla nostra storia dell'arte.
La biografia michelangiolesca di Giorgio Vasari narrata nel capolavoro delle Vite è sicuramente la più nota e quella che contribuì alla nascita del mito michelangiolesco, mentre la narrazione della sua vita redatta dal suo allievo Ascanio Condivi, edita nel 1553, è una delle più attendibili in quanto dettata dallo stesso artista al fedele discepolo.
Durante il Romanticismo, che esaltò il mito michelangiolesco dell'uomo solitario autore di opere immani oltre le proprie forze fisiche, la figura del Buonarroti divenne ancora più celebre e i grandi viaggiatori di inizio Ottocento, Goethe e Stendhal su tutti, ne descrissero entusiasticamente le sue imprese, consegnandoci l'immagine del genio che oggi conosciamo.
Il 6 marzo 1474 Michelangelo Buonarroti nacque a Firenze da una famiglia molto nobile e povera; il padre, pieno di pregiudizi, visse con spavento il suo gusto spiccato per il disegno. Tuttavia finì per metterlo come garzone nella bottega del Ghirlandaio.
Un giorno, il caso portò Michelangelo nei giardini di San Marco dove stavano disimballando delle statue antiche provenienti dalla Grecia, da cui Lorenzo il Magnifico le faceva venire a grandi spese. Sembra che, fin dal primo istante, quelle opere immortali abbiano colpito Michelangelo. [...] Non lo si rivide più nella bottega di Ghirlandaio, trascorreva intere giornate nei giardini di San Marco.
Volle copiare la testa di un fauno; la difficoltà stava nell'ottenere il marmo. Gli operai, che si vedevano intorno tutti i giorni quel giovinetto, gli fecero dono di un pezzo di marmo e gli prestarono anche gli scalpelli; furono i primi che toccò in vita sua.
Lorenzo de Medici, passeggiando in giardino, trovò Michelangelo che rifiniva la testa del fauno; fu colpito dall'opera e soprattutto dalla giovane età dell'autore. "Hai voluto fare un fauno 'vecchio'," gli disse ridendo, "e gli hai lasciato tutti i denti; non sai che a quell'età ne manca sempre qualcuno?" Michelangelo si affrettò a conformarsi al consiglio. Alla passeggiata dell'indomani, il principe rivide la testa del fauno e gli operai gli dissero che era la prima opera del giovane Buonarroti. "Non mancare di dire a tuo padre," gli disse il principe allontanandosi, "che desidero parlargli".
Michelangelo mostra il busto del fauno a Lorenzo il Magnifico in un affresco di Ottavio Vannini custodito a Firenze presso Palazzo Pitti.
Quel messaggio portò lo scompiglio nella famiglia dell'anziano gentiluomo. Giurava che non avrebbe mai sopportato che il figlio diventasse scalpellino; e fu con molta fatica che lo convinsero a comparire davanti all'uomo che a Firenze poteva tutto. Fin da quel giorno, Lorenzo de Medici diede a Michelangelo una stanza nel suo palazzo, lo fece trattare in tutto e per tutto come i suoi figli e lo ammise alla propria mensa, dove si riunivano quotidianamente i più grandi signori d'Italia e gli uomini più illustri del tempo.
Il celebre Poliziano disse un giorno al giovane scultore che il rapimento di Deianira e la battaglia dei Centauri sarebbero stati un buon soggetto per un bassorilievo. [...] Studiò gli affreschi di Masaccio nella chiesa del Carmine. Torrigiani, uno dei suoi compagni, che in seguito fu arso sul rogo in Spagna, invidioso dei suoi progressi, gli diede un pugno sul naso così violento che Michelangelo ne rimase sfigurato.
Lorenzo il Magnifico morì; suo figlio Piero si fece scacciare; Michelangelo andò a Venezia, poi a Roma, dove fece il Bacco della galleria di Firenze, statua non bella da vedere, ma fatta per suscitare le più grandi speranze. Dopo il Bacco, Michelangelo fece per il cardinale de Villiers, ambasciatore di Carlo VIII presso Alessandro VI, il gruppo della Pietà, che si trova a San Pietro.
Di ritorno a Firenze nel 1501, Michelangelo fece la colossale statua di David che c'è nella piazza di Palazzo Vecchio. Soderini, uomo debole messo a capo della repubblica di Firenze da quegli stolti, commissionò al giovane Buonarroti di affrescare una parte della sala del consiglio del palazzo del governo. Fu incaricato di rappresentare una battaglia che aveva avuto luogo nella guerra di Pisa. Il giorno dell'azione, il caldo era soffocante; una parte della fanteria si bagnava tranquillamente in Arno, quando tutto a un tratto fu richiamata urlando alle armi; il nemico avanzava. Michelangelo si impegnò a raffigurare quel primo moto di spavento e ardimento; non era una battaglia. Il cartone è scomparso. [...]
Nel 1504, Giulio II chiamò Michelangelo a Roma e lo incaricò di fargli il sepolcro. Quel grande principe fu talmente affascinato dal carattere semplice e focoso di Michelangelo che ordinò la costruzione di un ponte levatoio che gli permettesse di recarsi in segreto e a qualsiasi ora nell'appartamento dell'artista. I cortigiani invidiosi si riunirono per rovinare un favorito stupito del favore di cui godeva e che non faceva la corte a nessuno. Non fecero molta fatica: sarebbe bastato il suo carattere altezzoso a rovinarlo.
Nel 1506, un giorno che Michelangelo andava dal papa, gli rifiutarono l'ingresso nell'appartamento dove si trovava Sua Santità. Michelangelo rientra a casa sua, si procura dei cavalli e parte per Firenze al galoppo. Appena superata la frontiera, vede arrivare cinque uomini della guardia pontificia incaricati di riportarlo indietro per amore o per forza. Michelangelo si mette sulla difensiva e quegli uomini non osano eseguire l'ordine ricevuto.
Giulio II lo chiede indietro alla repubblica di Firenze. [...] Giulio II era in guerra, avendo occupato Bologna, Michelangelo andò lì per incontrarlo e fu lì che tra quei due uomini singolari ebbe luogo quella bizzarra riconciliazione. [...] Michelangelo fece una statua colossale di Giulio II che, cinque anni più tardi, il popolo di Bologna nel suo furore distrusse.
Michelangelo a Bologna si riconcilia con papa Giulio II, in un dipinto del 1620 di Anastasio Fontebuoni oggi in Casa Buonarroti.
Il papa era tornato a Roma, i nemici di Michelangelo lo indussero a far affrescare da quel grande scultore il soffitto della cappella di Sisto IV in Vaticano. Michelangelo era disperato: ma come! cambiare mestiere nel pieno della carriera! Ma non poté esimersi dall'obbedire. In venti mesi, terminò la volta della cappella Sistina; all'epoca aveva trentasette anni. La volta e il Giudizio universale in fondo alla cappella sono di Michelangelo, il resto delle pareti è stato dipinto da Perugino, Sandro [Botticelli], ecc.
Ci vorrebbero venti pagine per descrivere la volta. È piatta, Michelangelo ha immaginato dei costoloni retti da delle cariatidi. Tutt'attorno alla volta e tra le finestre ci sono le celebri raffigurazioni dei profeti e delle sibille.
Sopra l'altare dove viene detta la messa papale, si distingue la figura di Giona. Al centro della volta, a partire da Giona fin sopra la porta d'ingresso, sono rappresentate scene della Genesi, in riquadri alternativamente più grandi e più piccoli.
Cercate la figura dell'Essere supremo che crea il primo uomo dal nulla. Nel dipinto del Diluvio, si vede una barca carica di sventurati che cola a picco cercando di raggiungere l'arca.
Giulio II morì. Sotto Leone X, Michelangelo si ritrovò nuovamente disoccupato. Il sacco di Roma, nel 1527, venne a incrinare il potere di Clemente VII; Firenze colse l'occasione e si sbarazzò dei Medici. [...]
Trent'anni dopo, Clemente VII mandò contro la sua patria un esercito di trentaquattromila uomini, per la maggior pare tedeschi. La guardia nazionale di Firenze contava soltanto tredicimila cittadini. Come capita sempre in casi del genere, i fiorentini furono traditi; ma durante l'assedio, che durò undici mesi, non uccisero meno di quattordicimila soldati dell'esercito papale; persero ottomila uomini. Alla fine Firenze cadde e, insieme a lei, la libertà dell'Italia, che non doveva provare a rialzare la testa se non nel 1820, all'epoca della rivoluzione di Napoli.
Michelangelo era stato ingegnere capo della sventurata repubblica; le sue costruzioni abili e ardite avevano contribuito parecchio a ritardare la presa di Firenze. Il giorno dell'occupazione sparì, con gran dispiacere della polizia dei Medici, che volevano utilizzarlo per dare un esempio.
Più tardi, Clemente VII, disperando di ottenere la sua testa, scrisse da Roma che Michelangelo fosse risparmiato, ma a condizione che facesse le statue dei Medici nella cappella di San Lorenzo a Firenze. In quella cappella, architettura e scultura, è tutto di Michelangelo. Ci sono sette statue. A sinistra, l'Aurora, il Crepuscolo e nella nicchia soprastante Lorenzo, duca di Urbino, morto nel 1518, il più vile degli uomini. La sua statua è l'espressione più sublime che io conosca della profondità di pensiero e del genio.
A destra si vedono il Giorno, la Notte e la statua di Giuliano de Medici. Accanto alla porta, tra due statue di vecchi eseguite da artisti volgari, c'è una Madonna di Michelangelo che regge il Bambin Gesù. Da nessun'altra parte le sue idee sulla necessità del terrore nella religione cristiana sono più evidenti.
Michelangelo restava a Firenze ma trepidando; si vedeva alla mercé del duca Alessandro, giovane tiranno del tipo di Filippo III che qualche tempo dopo ebbe la scempiaggine di lasciarsi assassinare a un sedicente appuntamento con una delle belle donne della città. Michelangelo colse l'occasione per tornare a Roma e lì fece il Mosè che si trova a San Pietro in Vincoli, sulla tomba di Giulio II. Quella statua colossale è seduta; l'artista mi sembra degno dell'eroe.
Paolo III, Farnese, volle che Michelangelo dipingesse il giudizio universale sul fondo della cappella Sistina. Quell'immenso dipinto è suddiviso in undici gruppi. [...]
Al centro dell'undicesimo gruppo, Gesù Cristo è raffigurato nel momento in cui pronuncia la spaventosa sentenza che condanna tanti milioni di uomini a eterni supplizi. Gesù Cristo non ha affatto la bellezza sublime di un Dio e neppure la fisionomia impassibile di un giudice; è un uomo pieno di odio che prova piacere a condannare i nemici.
A sinistra e in fondo al dipinto, il primo gruppo raffigura i morti che la terribile tromba risveglia dalla polvere della tomba. Peccatori tremanti che si avvicinano a Gesù Cristo formano il secondo gruppo. Vi si distingue una figura che tende una mano soccorrevole a uno sventurato.
Il terzo gruppo, alla destra di Cristo, è formato da donne la cui salvezza è assicurata. Angeli che reggono gli strumenti della passione formano il quarto e il quinto gruppo.
Il sesto rappresenta uomini sicuri della salvezza. Si vedono alcuni eletti che si abbracciano; sono parenti che si riconoscono. Che momento! Rivedersi dopo tanti secoli e proprio nel momento in cui si è appena sfuggiti a una tale sventura! I santi, collocati ai lati di questo gruppo, mostrano gli strumenti del martirio ai dannati, per aumentarne la disperazione. Vi troviamo san Biagio e santa Caterina, figure che successivamente Daniele da Volterra fu incaricato di rivestire.
Il settimo gruppo basterebbe da solo a incidere per sempre il ricordo di Michelangelo nella memoria dello spettatore capace di guardare. Nessun pittore ha mai fatto nulla di simile e mai ci fu spettacolo più orribile. Sono gli sventurati condannati trascinati al supplizio dai demoni. Michelangelo traduce in pittura le immagini spaventose che l'eloquenza infuocata di Savonarola gli aveva un tempo impresso nell'anima. Ha scelto un esempio per ciascuno dei peccati capitali. Daniele da Volterra fu incaricato successivamente di occultare in parte l'orribile punizione del vizio più a destra, verso il bordo del dipinto.
Uno dei dannati sembra voler fuggire. Due demoni lo trascinano all'inferno ed è tormentato da un enorme serpente; si tiene il capo tra le mani. È l'immagine più vera della disperazione di un uomo vigoroso. [...]
Di solito è attraverso la figura di questo dannato che i viaggiatori iniziano a capire il giudizio universale. Non c'è la minima idea di tutto ciò né tra i Greci, né tra i moderni. Una delle nostre compagne di viaggio ha avuto l'immaginazione assillata per otto giorni dal ricordo di questa figura.
È inutile parlare del valore dell'esecuzione; siamo lontani dall'immensità di questa volgare perfezione. Il corpo umano, presentato di scorcio e nelle posizioni più strane, è lì per l'eterna disperazione dei pittori.
Con uno strano miscuglio di sacro e profano che l'autorità di Dante ha mantenuto a lungo in Italia contro gli attacchi della convenienza, Michelangelo ha supposto che i dannati, per arrivare all'inferno, debbano passare sulla barca di Caronte. Assistiamo allo sbarco; Caronte, con gli occhi rossi di collera, li spinge fuori dalla barca a colpi di remo. I demoni li afferrano; si nota una figura che, nello spasmo dell'orrore, un diavolo sospinge con un forcone ricurvo affondandoglielo nella schiena.
Viene consultato Minosse; è il ritratto di messer Biagio, maestro di cerimonie di Paolo III, uno dei nemici di Michelangelo; indica con il dito il posto che lo sventurato deve occupare al centro delle fiamme che si scorgono in lontananza.
La caverna che si trova a sinistra della barca di Caronte rappresenta il purgatorio che, nel giorno del giudizio universale, rimane vuoto. Sotto c'è il gruppo dei sette angeli che risvegliano i morti con il suono della terribile tromba; hanno accanto alcuni dottori incaricati di esibire ai dannati la legge che li condanna.
Il più vivo terrore agghiaccia quanti circondano Gesù Cristo; la Madonna volta la testa rabbrividendo. Si distingue a destra del Cristo la figura maestosa di Adamo; traboccante dell'egoismo del supremo pericolo, non pensa minimamente a tutti quegli uomini che sono figli suoi. Il figlio Abele lo afferra per un braccio; accanto alla sua mano sinistra si vede uno di quei patriarchi antidiluviani che misuravano la loro età in secoli. Quell'estrema vecchiezza è espressa benissimo.
A sinistra di Cristo, san Pietro, fedele al carattere timoroso che gli conosciamo, mostra prontamente al giudice terribile le chiavi del cielo che un tempo gli furono affidate da lui e dove teme di non entrare; Mosè, guerriero e legislatore, guarda fisso il Cristo con un'attenzione profonda, ma assolutamente esente dal terrore.
Al di sotto di Cristo, san Bartolomeo gli mostra il coltello con il quale fu scorticato; san Lorenzo si copre con la griglia sulla quale spirò.
I personaggi degli ultimi tre gruppi nella parte bassa del dipinto sono alti sei piedi; quelli che circondano Gesù Cristo dodici piedi; i gruppi posti sotto, hanno otto piedi di altezza, gli angeli che coronano il dipinto ne hanno solo sei. Delle undici scene di questo grande dramma, solo tre si svolgono sulla terra; le altre otto sono ambientate su nubi più o meno vicine all'occhio dello spettatore. Ci sono trecento personaggi, il dipinto ha cinquanta piedi di altezza per quaranta di larghezza.
Le figure si stagliano su un celeste molto intenso. In quel giorno memorabile, in cui si dovevano vedere così tanti uomini, l'aria doveva essere tersissima. Gli angeli che suonano la tromba sono rifiniti con la medesima cura che per un dipinto da cavalletto vicinissimo allo sguardo. La scuola di Raffaello ammirava molto l'angelo centrale, che stende il braccio sinistro; sembra pieno di coraggio. [...]
Per giudicare Michelangelo come architetto, bisogna vedere la biblioteca Laurenziana a Firenze, la cupola e le parti esterne di San Pietro a Roma. Fu Paolo III ad affidare a Michelangelo la direzione dei lavori di San Pietro e l'artista credette di salvarsi assumendo l'incarico. [...]
Quel grand'uomo morì a Roma, il 17 febbraio 1563; aveva ottantanove anni, undici mesi e quindici giorni.
Note
La fotografia della cupola di San Pietro è stata scattata durante il mio viaggio a Roma nel febbraio 2019.
Bibliografia
Stendhal, Passeggiate romane, traduzione e note di Donata Feroldi, incisioni di Giuseppe Vasi, Milano, Feltrinelli, 2019.