Caravaggio
Le prime committenze
Quando nell'anno 1595, all'età di ventiquattro anni, Caravaggio decise di lasciare Milano alla volta di Roma, la città eterna attraversava un periodo di crisi a seguito della scomparsa dei due geni del Rinascimento che le avevano donato la vita a livello artistico, vale a dire Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio. Un periodo straordinario per la storia dell'arte era però ormai alle porte, in concomitanza con il sorgere di un nuovo secolo, il Seicento, che sarebbe divenuto celebre per il Barocco. In questi anni due geni come Caravaggio per la pittura e Gian Lorenzo Bernini per la scultura e l'architettura, riuscirono a donare nuova linfa alla città di Roma, proprio lì dove erano stati raggiunti i massimi vertici della bellezza.
L'affermazione romana fu tanto rapida quanto difficile per il Merisi, un giovane ragazzo dal temperamento inquieto e dalla salute cagionevole segnata, secondo alcuni biografi, dalla malaria, una malattia che ne minava il fisico rendendo ancor più problematico un carattere alquanto difficile. Testimonianza della sua fragile condizione di salute è il Bacchino malato custodito alla Galleria Borghese, secondo gli studiosi un autoritratto giovanile in cui Caravaggio si raffigura come Bacco, dio del vino e dell'ebrezza, ponendo l'accento sulla propria sofferenza fisica, come mostrano il colorito pallido della carnagione e le labbra bluastre.
Caravaggio fu sostenuto e incoraggiato da una cerchia di eruditi e raffinati conoscitori d'arte duranti i suoi primi anni romani, tra cui spiccava il cardinale Francesco Maria Del Monte, grande estimatore e protettore del suo talento che nel 1596 lo accolse nella propria dimora. Fu il cardinale a metterlo in contatto con i primi collezionisti, ambiziosi nelle loro committenze private, per i quali il pittore cominciò ad eseguire una prolifica serie di ritratti di giovani bellissimi, dallo sguardo languido e dalle fattezze femminee. Il più famoso nell'immaginario collettivo è sicuramente il Fanciullo con canestro di frutta della Galleria Borghese, il museo che, al mondo, custodisce il maggior numero di opere del Merisi, in cui viene messo in risalto quello che è uno degli elementi fondamentali dell'arte barocca, ossia il rapporto con lo spettatore, al quale si rivolge lo sguardo del ragazzo quasi con maliziosa sensualità, offrendo in dono un cesto di frutta fresca che richiama l'opera della Pinacoteca Ambrosiana di Milano.
Fin dai suoi esordi si nota nel Caravaggio la propensione verso il naturalismo pittorico, imitando il vero e ispirandosi a soggetti semplici, quotidiani, in conformità con quanto appreso nel corso della propria formazione lombarda. Fondamentale in questo senso è la presa di distanza dell'artista dal manierismo, ossia l'imitazione pedissequa della pittura di Michelangelo e in particolare della perfezione raffaellesca, in uno stile che risultava ormai anacronistico. Questa posizione contrappone nettamente il Merisi al rivale Cavalier d'Arpino, un artista tardo manierista particolarmente in voga in quegli anni. Scrive a tal proposito il biografo Giovan Pietro Bellori:
«In questa lunga agitazione l'arte veniva combattuta da due contrari estremi, l'uno tutto soggetto al naturale, l'altro alla fantasia: gli autori in Roma furono Michel Angelo da Caravaggio e Gioseppe di Arpino».
Aggiunge su Caravaggio il francese Stendhal nelle sublimi pagine di Passeggiate romane:
«Fu un assassino; ma l'energia di carattere gl'impedì di cadere nel genere insulso e nobile, per cui allora era celebre il cavalier d'Arpino, che il Caravaggio tentò di uccidere. Avendo in orrore l'idealizzazione stupida, il Caravaggio non correggeva alcun difetto dei modelli che fermava per strada, per farli posare».
Solamente così possiamo capire un dipinto come il Bacco della Galleria degli Uffizi, datato fra il 1595 e il 1596, in cui vediamo il dio, ebbro di vino e di piacere, seduto a tavola con una coppa di vino che sembra quasi non riuscire a reggere nella mano, in n precario equilibrio che richiama la versione scultorea michelangiolesca del Bargello. Il giovane dio poggia su un triclinio secondo un'iconografia classica, coronato da frasche e circondato da una natura morta tanto realistica da apparire viva, tuttavia lo scandalo è nell'essere coperto da un umile panno, un lenzuolo che ne diviene la toga, sufficiente solamente a coprirne metà del torso. Quello che raffigura il Merisi è un suo giovanotto di bottega, una scena di atelier capace come poche di coinvolgere lo spettatore, elemento caratteristico dell'arte barocca; il protagonista sembra infatti porgere il calice a chiunque lo guardi dritto nei suoi occhi intrisi di una dolce malinconia.
Rimanendo agli Uffizi, celeberrima è la Medusa, sempre degli stessi anni e riprodotta in infinite versioni, che insieme al Bacco apparteneva anche alla medesima committenza, quella del cardinal Del Monte per l'amico Ferdinando I de' Medici, granduca della città di Firenze. Dipinta ad olio su uno scudo da parata, è una delle opere più inquietanti che siano mai state realizzate, anticipando un tema, quello della decapitazione, che sarà ricorrente nella produzione del Caravaggio.
Lo sgomento dello sguardo e il pathos dell'espressione sono enfatizzati dal movimento disordinato e il groviglio dei serpenti che si intrecciano sulla testa di Medusa, immagine che si pone come degna prosecutrice del modello di Benvenuto Cellini, che proprio in piazza della Signoria a Firenze diede vita al suo capolavoro bronzeo, il temibile Perseo che tiene in mano, mostrandola al popolo, la testa del mostro appena sconfitto.
Nuovamente l'istante di un attimo, fissato per sempre grazie alla magia della pittura, unito alla componente teatrale e drammatica, tutti elementi derivanti dall'esperienza artistica lombarda, caratterizzano il Ragazzo morso da un ramarro, di cui esistono ben due versioni, una fiorentina e autografa presso la Fondazione Longhi, mentre l'altra, di attribuzione più incerta, si trova alla National Gallery di Londra. Afferma Giovanni Baglione, biografo e antagonista del Merisi:
«Fece anche un fanciullo, che da una lucerta, la quale usciva da fiori, e da frutti, era morso; e parea quella testa veramente stridere, et il tutto con diligenza lavorato».
Come in un'istantanea fotografica, il giovane uomo è colto mentre ritrae spaventato la mano, con espressione di paura e disgusto per il morso del piccolo rettile nascosto fra la natura morta delle ciliegie, allusione all'insidia e alla sofferenza intrise nella bellezza della vita, nell'amore.
Il movimento repentino del ragazzo e l'espressione del suo volto furono evidentemente studiati dal vivo dal pittore, affascinato da quella rappresentazione dei moti dell'anima derivante da Leonardo, scegliendo come modello l'amato Mario Minniti, un allievo di bottega che sovente è protagonista delle opere caravaggesche di questi anni, basti osservare i soggetti precedenti, ma anche in quelle religiose successive, come in Vocazione di San Matteo.
La figura del Minniti si ritrova anche nel dolcissimo e languido Suonatore di liuto del 1597-1598, che apre un tema, quello del concerto, frequente nel Caravaggio giovanile e derivante dall'ambiente lombardo-veneto, più precisamente da Lorenzo Lotto e da Tiziano. Nella tela conservata al Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo, secondo il Baglione quella che Caravaggio stesso giudicava la migliore che avesse fatto sino ad ora, sorprende la minuziosa cura dei dettagli che caratterizza gli strumenti musicali posti in primo piano, ossia il liuto che suona il protagonista ed il violino posto accanto ad uno spartito aperto sul tavolo.
In questi anni di prime committenze romane, accanto ai temi spiccatamente erotici di questi giovani sensuali rivolti in un dialogo con lo spettatore, si trovano anche due interessanti opere di carattere maggiormente comico e finalizzate ad esprimere un insegnamento morale proprio attraverso una situazione di burla o di ingenuità. È il caso della tela intitolata La buona ventura della Pinacoteca Capitolina, datata fra il 1593 e il 1594, dove una zingara dal sorriso astuto, fingendo di leggere la mano ad un giovane cavaliere, gli ruba il prezioso anello sfilandolo con estrema precisione dal suo dito, scena di strada perfettamente descritta da uno dei primi biografi del Merisi, il medico e collezionista d'arte senese Giulio Mancini: «Non credo forsi che si sia visto cosa con più gratia et affetto che quella zingara che dà la buona ventura a quel giovinetto, mano del Caravaggio, che possiede il signor Alessandro Vittrici, gentiluomo qui di Roma. [...] La zingaretta mostra la sua furbaria con un riso finto nel levar l'anello al giovanotto, et questo la sua semplicità et affetto di libidine verso la vaghezza della zingaretta che le dà la ventura et leva l'anello».
Dello stesso tema e di poco successiva è I bari, nella cui scena vediamo un tenero e sprovveduto fanciullo di buona famiglia, che appare ancor più innocente del precedente, mentre viene imbrogliato da una coppia di truffatori, alleatasi per raggirare il giovane, leggendone le carte da gioco per poi spartirsi la vincita ottenuta. La profonda differenza che divide i due malandrini dalla loro vittima è riposta certamente negli abiti. Se il ragazzo indossa un elegante vestito di velluto nero con i polsini ed il colletto bianco che ne sottolineano il candore, dall'altra parte gli altri due personaggi hanno invece degli indumenti variopinti, uno con il guanto sgualcito ed il più giovane con un cappello ed un vestito che solo all'apparenza mostrano un'agiata condizione sociale, prontamente smascherata dal pugnale che si scorge in primo piano, allusione alla sua delinquenza.
Commissionata dal cardinale Del Monte, questa scena estremamente realistica e teatrale, dal sicuro effetto comico, ha come detto un intento morale, si potrebbe dire di matrice boccaccesca, che è quello del saper far tesoro delle proprie sventure e delle beffe subite per non commettere gli stessi errori nel futuro.
Non si può comprendere sino in fondo la primissima attività del Caravaggio romano senza recarsi in un luogo estremamente importante quale la Galleria Doria Pamphilj, situata in via del Corso, appena prima di piazza Venezia e del Vittoriano, pinacoteca i cui dipinti del Merisi custoditi si pongono come uno spartiacque fra la fine del Cinquecento e l'avvento del nuovo secolo, che coincide con il vero successo del pittore, nonché con il suo abbandono, per ragioni di committenza, dei temi pagani per dedicarsi al sacro.
Protagonista assoluta della collezione è la Maddalena, di cui annota il Bellori:
«E perché egli aspirava all'unica lode del colore, siché paresse vera l'incarnazione, la pelle e 'l sangue e la superficie naturale, a questo solo volgeva intento l'occhio e l'industria, lasciando da parte gli altri pensieri dell'arte. Onde nel trovare e disporre le figure, quando incontravasi a vederne per la città alcuna che gli fosse piaciuta, egli si fermava a quella invenzione di natura, senza altrimente esercitare l'ingegno. Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi li capelli, la ritrasse in una camera, ed aggiungendovi in terra un vasello d'unguenti, con monili e gemme, la finse per Madalena».
Dalle parole conclusive del biografo capiamo che il quadro nacque come soggetto profano, nel quale l'artista pensava di raffigurare una giovane donna intenta ad asciugarsi i capelli, per poi trasformarla nell'immagine della santa, per la cui modella era stata scelta una donna di strada, probabilmente una prostituta. All'interno della propria dimora, la Maddalena, di cui colpiscono i ricchi vestiti e la raffinatezza dei panneggi, è seduta con le mani giunte, raccolta nei propri intimi pensieri, apparentemente assopita sino a quando scopriamo, osservando attentamente il suo volto, che una lacrima le attraversa il viso. La peccatrice, colpita dal raggio di luce che entra in alto nella sua casa e nel proprio cuore, è divenuta santa. Ai suoi piedi giacciono i gioielli e le perle ormai abbandonate, con accanto il vasetto del prezioso unguento con cui lavò i piedi del suo Signore.
Prosegue il Bellori:
«Dipinse in un maggior quadro la Madonna che si riposa dalla fuga in Egitto: evvi un angelo in piedi che suona il violino, San Giuseppe sedente gli tiene avanti il libro delle note, e l'angelo è bellissimo, poiché volgendo la testa dolcemente in profilo va discoprendo le spalle alate e 'l resto dell'ignudo interrotto da un pannolino. Dall'altro lato siede la Madonna, e piegando il capo sembra dormire col bambino in seno».
Si tratta del Riposo durante la Fuga in Egitto, una delle rare scene di Caravaggio ambientate in un paesaggio; in tal senso è evidente il riferimento al Buonarroti, per il quale era l'anatomia, così come sarà nei dipinti religiosi del Merisi, a farsi portatrice dei significati celati nell'opera. Il Merisi immaginò un momento di sosta, in una campagna romana, da parte della Sacra Famiglia in fuga da Betlemme, mentre Madre e Figlio si addormentano allietati dalle note del violino suonato dall'angelo alato di spalle. La magia di un'ultima luce serale pervade questo incantevole capolavoro di un artista che qui, come non mai, mostra la propria dolcezza, in particolare nell'immagine di Maria che coccola il piccolo Gesù, in un gesto di protezione e materna tenerezza che richiama lo stile di Sandro Botticelli o di Raffaello. Caravaggio, in questa armonia dove il colore diviene melodia, sembra voler esprimere l'affetto dei genitori e l'unione della famiglia, come a dire che ogni mamma che stringe così il suo bambino è portatrice di una scintilla del divino e di eternità.
Le morbide fattezze della Vergine e del suo Bambino paffutello, ma anche dell'angelo musico, contrastano con il volto di Giuseppe, provato dall'età e dal lungo cammino. Si tratta di una contrapposizione, analoga a quella fra luce e ombra, volta ad esprimere l'armoniosa giovinezza delle figure divine, portatrici di vita eterna, e quella stanca e consumata delle figure umane, in quanto in San Giuseppe viene rappresentata l'intera umanità nel suo tortuoso cammino. Se il paesaggio di sinistra, dove è collocato il santo, è infatti riarso e cosparso di sassi, la parte di destra è al contrario ricca di vegetazione, aperta in un bucolico paesaggio fluviale che allude al paradiso promesso all'umanità finalmente redenta.
L'angelo, che legge lo spartito sorretto da Giuseppe, si pone come tramite fra il divino e l'umano, dividendo e unendo allo stesso tempo le due parti del dipinto, mentre l'asinello davanti a lui sembra avvicinarsi per ascoltare le note di quella musica celestiale. Alcuni musicologi hanno recentemente decifrato lo spartito, che sarebbe un mottetto in onore della Vergine, composto da un musicista franco-fiammingo, che riprende alcuni versetti del Cantico dei Cantici. Il breve componimento è rivolto dallo Sposo alla sua Sposa, dove qui lo Sposo è Giuseppe, ma allo stesso tempo Dio, mentre la Madonna, in tutta la sua bellezza, è la Sposa intesa come Madre di Gesù e di tutta l'umanità, in un inno sublime all'Amore. La Vergine, colta da un profondo sonno e sfinita dalla lunga giornata di cammino, sembra dire al suo Bambino e ad ognuno di noi:
«Io dormo, ma il mio cuore vigila»...
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Note
La fotografia del Bacchino malato è stata scattata durante il mio viaggio a Roma nel febbraio 2019, mentre quella del Bacco agli Uffizi nell'aprile 2023.