Caravaggio

Gli anni in fuga

All'apice del successo romano, quando Caravaggio, grazie alla sua rapida esecuzione di pittura, era uno degli artisti più apprezzati dai committenti che, consapevoli delle novità del suo stile, riuscivano a vedere oltre le sue scelte stilistiche improntate a concezioni più che mai realistiche e umane, il Merisi si macchiò dell'omicidio di un uomo, Ranuccio Tomassoni, e fu costretto ad abbandonare la città che lo aveva reso grande.
Per proseguire nella narrazione della sua vita, tanto breve quanto avventurosa, una fonte attendibile e più che mai poetica rimane quella del suo biografo più noto, Giovan Pietro Bellori, che nelle pagine delle Vite scrive: «Fuggitosene di Roma, senza denari e perseguitato [...] prese dopo il camino per Napoli, nella qual città trovò subito impiego, essendovi già conosciuta la maniera e 'l suo nome. [...] Nella medesima città per la Chiesa della Misericordia dipinse le Sette Opere in un quadro lungo circa dieci palmi; vedesi la testa di un vecchio che sporge fuori dalla ferrata della prigione suggendo il latte d'una donna che a lui si piega con la mammella ignuda. Fra l'altre figure vi appariscono li piedi e le gambe di un morto portato alla sepoltura; e dal lume della torcia di uno che sostenta il cadavero si spargono i raggi sopra il sacerdote con la cotta bianca, e s'illumina il colore, dando spirito al componimento».

Sono le Sette opere di Misericordia, opera, custodita al Pio Monte della Misericordia, che ben ci spiega quello che doveva significare la città di Napoli, teatro di una concitata vita quotidiana, agli occhi del pittore, il quale ha qui rapito un istante notturno di strada, una scena di un vicolo in cui - e questo è l'aspetto più rivoluzionario del dipinto - per la prima volta nella storia dell'arte vengono raffigurati tutti insieme i sette atti di virtù descritti dall'evangelista Matteo.
Vediamo così una donna del popolo che allatta un vecchio, il quale si sporge da una cella, sintesi di due messaggi, vale a dire quello di dar da mangiare agli affamati e di visitare i carcerati; un cavaliere sguaina la spada e divide a metà il suo mantello con un mendicante, il quale, a terra, è anche bisognoso d'aiuto, metafore del vestire gli ignudi e curare gli infermi; un oste indica la strada per un alloggio ad un pellegrino ed offre da bere ad un assetato sullo sfondo; alla destra della composizione, in un angolo del vicolo napoletano, vediamo i piedi nudi di un cadavere, sostenuto da due uomini, sui quali si posa un fascio di luce, allusione all'insegnamento di seppellire i morti.
Compiaciuta e con in braccio un altrettanto sorridente Bambino Gesù, la Madonna assiste dall'alto alla scena, conclusione sublime di una tela in cui viene spiegato visivamente come l'amore fra gli uomini, che si aiutano vicendevolmente assistendo i più poveri e afflitti, coincide con quello per Dio, una vera e propria lezione teologica caravaggesca.
I due angeli posti appena sotto la Vergine col Bambino, competono per bellezza e dolcezza con quelli del Correggio, ed in particolare quello che protende la mano verso la realtà concreta appare come il richiamo e l'omaggio ad una scultura di pochi anni prima, l'Annunciazione di Francesco Mochi, che segna simbolicamente l'inizio della stagione del Barocco.

Sempre a Napoli, come pala d'altare per la chiesa di San Domenico ed oggi al Museo Nazionale di Capodimonte, si può vedere la Flagellazione di Cristo, la cui fonte d'ispirazione più evidente è l'omonimo soggetto di Sebastiano del Piombo, dipinto a Roma per San Pietro in Montorio, un artista veneziano giunto nella città eterna per lavorare niente meno che con il modello di riferimento assoluto per Caravaggio, ossia Michelangelo Buonarroti.
La potenza espressiva di questa scena oscura e violenta, una sorta di danza macabra in cui la luce pone in risalto il corpo scultoreo del Cristo, emerge tutta la cattiveria insita nell'uomo, basti osservare lo sguardo dell'aguzzino a sinistra, una maligna presenza capace di ogni malvagità. Ancora una volta sembra essere la scultura il riferimento da cui il Merisi attinse la propria ispirazione; osservando attentamente la posa del Messia riconosciamo infatti lo studio appassionato del Michelangelo del Cristo redentore presente nella basilica romana di Santa Maria sopra Minerva, situata appena dietro il Pantheon. Un'analisi ancor più approfondita porta anche all'ipotesi che il Caravaggio abbia potuto osservare l'opera del Giambologna, si pensi al piccolo Cupido fiorentino dello Studiolo di Francesco I a palazzo Vecchio, caratterizzata dall'esasperazione della figura serpentinata, proprio come la posa del Cristo caravaggesco, che aprirà la strada alle meravigliose sculture dei protagonisti dell'arte seicentesca, Gian Lorenzo Bernini su tutti. Anche una piccola scultura bronzea come Apollo e Cupido, oggi a , del fiammingo François Duquesnoy, un autore maggiormente classicista nell'epoca degli sfarzi dell'arte barocca, deriverebbe allora da questa tradizione che pone il Caravaggio, grazie alla propria genialità, come precursore dello straordinario secolo del Barocco.

Ancora il Duquesnoy, che lavorò nella basilica di San Pietro durante la prima metà del Seicento, sembrerebbe aver tratto dalla pittura del Merisi il modello per il suo capolavoro, il colossale Sant'Andrea posto in uno dei quattro immensi pilastri progettati da Donato Bramante per sostenere la cupola michelangiolesca. Così commovente e suggestiva appare infatti la figura del santo caravaggesco, colto nel momento dell'estrema agonia del suo martirio, nella Crocifissione di Sant'Andrea realizzata a Napoli, opera che rapisce, come molte nella produzione dell'artista, per la capacità di fermare eternamente l'attimo, quando il santo esala l'ultimo respiro e, illuminato dal divino, viene accolto in cielo nel momento esatto della morte. Se la luce che piove da sinistra nel dipinto è un elemento ricorrente, presente anche nell'opera precedente, al contrario il corpo lungo, magro ed esposto impietosamente alla sofferenza appare invece totalmente privo di quel plasticismo e di quella dinamicità che caratterizzavano la Flagellazione. Un uomo in armatura, ai piedi di Sant'Andrea col quale cerca invano un dialogo, ne ha appena ordinato la liberazione a seguito dell'ingiusta condanna, tuttavia il tentativo dell'uomo a sinistra, impegnato nel slegare velocemente le braccia del santo, risulta ormai tardivo.

Napoli non doveva essere abbastanza sicura se nemmeno ad un anno dal suo arrivo, Caravaggio decise di abbandonarla per cercare riparo a Malta, approdando a La Valletta nel luglio del 1607 per sfuggire agli oppressori romani, ipotesi più convincente rispetto a quella riportata dal Bellori: «Era il Caravaggio desideroso di ricevere la croce di Malta, solita darsi per grazia ad uomini riguardevoli per merito e per virtù». Per il Bellori l'ambizione di essere premiato dall'ordine dei Cavalieri dell'isola, che aveva origini medievali, sarebbe stato il motivo principale a spingerlo a partire, ma sebbene l'artista ottenne veramente la Croce di Cavaliere di Grazia dell'Ordine di Malta, è difficile credere che il suo viaggio non fosse spinto dalla necessità di proseguire quella fuga disperata, che caratterizzò gli ultimi anni della sua vita, per fuggire dalla morte alla ricerca della libertà.
Nei soli cinque mesi che rimase a Malta, Caravaggio diede spazio alla propria inquietudine e alla paura per la condanna che gravava su di lui in quello che è il dipinto più grande che abbia mai realizzato, secondo alcuni critici il suo capolavoro assoluto: la Decollazione di San Giovanni Battista.

Monumentale, drammatica nel suo assoluto e spietato realismo, l'opera, ancora oggi nella Cattedrale di San Giovanni di La Valletta, ci lascia in un silenzio attonito, spaventandoci nel vedere un delitto di cui crediamo veramente di trovarci al cospetto e di partecipare in prima persona. Questa incredibile teatralità, capace di toccare nel profondo la nostra sensibilità, sembra voler rispettare quell'antica regola nella tradizione del teatro, e poi del melodramma, secondo cui la scena primaria doveva essere recitata a sinistra rispetto agli spettatori, sulla destra del palcoscenico, così da entrare più facilmente nel cuore dei presenti, in quella che era ovviamente una credenza popolare che qui, però, appare più vera che mai.
Nel cortile di una prigione, davanti all'arco profondo di un portone, un gruppo di cinque figure è disposto sulla scena. In basso è Giovanni Battista, mentre sopra di lui il carnefice si curva per raccoglierne la testa. Dal lato opposto è Salomè, che attende su un vassoio il trofeo chiesto, a seguito della sua danza davanti a re Erode, su consiglio della madre Erodiade. Una vecchia, inorridita, stringe il proprio capo fra le mani. La metà di destra è invece occupata dal cieco muro di una prigione da cui due compagni di cella del Battista si sporgono dalla grata per assistere alla spietata e macabra uccisione. Davanti a loro una corda, legata ad un anello, ci rivela senza alcuna censura la tortura di cui è appena stato vittima il santo.
Osservando attentamente la scena, notiamo che l'artista, per accentuare il senso di orrore, ha immaginato che l'esecuzione non sia riuscita perfettamente: «mentre il carnefice, quasi non l'abbia colpito alla prima con la spada, prende il coltello dal fianco, afferrandolo ne' capelli per distaccargli la testa dal busto», scrive Bellori. Così l'aguzzino si appresta, per ordine di un ufficiale, a prendere un coltello più piccolo, chiamato appunto "misericordia", per recidere il collo del santo e dargli il colpo di grazia. Caravaggio, perseguitato dalla condanna a morte, si immedesima a tal punto nel Battista che arriva a tracciare la sua firma, l'unica presente fra tutte le sue opere, nel sangue uscito dalla testa del santo, in un vero e proprio grido di dolore contro la violenza.
A livello stilistico il Merisi ha qui abbandonato ormai definitivamente i colori accesi della giovinezza, fatta eccezione per il mantello di San Giovanni, per porre la propria attenzione all'uso dello spazio e alla disposizione dei personaggi che svolgono l'azione, chi con estrema freddezza come Salomè, pronta a raccogliere la testa del martire, chi con efferata violenza come il boia in primo piano. Conclude perfettamente il Bellori: «In quest'opera il Caravaggio usò ogni potere del suo pennello».

Nessuno doveva sapere a Malta del bando capitale che gravava su Caravaggio, il quale, probabilmente scoperto, oppure coinvolto nell'ennesimo duello nel quale ferì un suo superiore, fu rinchiuso in carcere. Riuscito incredibilmente a fuggire, sicuramente aiutato da qualcuno, in un episodio che richiama quello avvenuto a Castel Sant'Angelo nell'altrettanto avventurosa esistenza di Benvenuto Cellini, il Merisi dovette salpare vero la Sicilia e nell'ottobre del 1608 approdò a Siracusa, probabilmente ospite del pittore e suo allievo Mario Minniti, ricongiungendosi con colui che, modello per diversi fanciulli degli anni giovanili, era stato costretto a lasciare Roma perché coinvolto nelle vicende legate alla vita del maestro, o semplicemente perché suo amante.
Per Caravaggio tornava viva la speranza, soprattutto per il giungere di notizie positive da Roma, da dove si diceva che il bando capitale che gravava su di lui fosse sullo scrittoio di papa Paolo V in attesa di essere firmato. L'artista, è il caso di dirlo, torna alla vita, e vede più concreta che mai l'ipotesi, prima solamente sognata, di rientrare nella città che lo aveva reso grande. Questa gioia è più che mai evidente nella Resurrezione di Lazzaro dipinta a Messina per il ricco commerciante genovese Giovan Battista Lazzari.

Caravaggio ha negli occhi la città eterna e il ricordo degli anni passati lì; se si osserva il Cristo ci torna infatti chiaro alla mente il Redentore che nella Vocazione di San Matteo entra nella locanda per salvare l'apostolo. Sublime è il gesto di Lazzaro, il quale emerge dal sonno eterno e vince le tenebre colpito dalla luce di Dio, mentre il suo corpo, irrigidito dalla morte, riprende linfa vitale a partire dal gesto delle braccia con cui evoca la croce. A sostenere il suo corpo è un uomo che ne guarda stupito e con affetto il viso, destato da un sussulto vitale, un riferimento questo che sembrerebbe tratto ancora una volta da un'opera di scultura. Il modello potrebbe essere infatti il Menelao che sorregge il corpo di Patroclo, antica statua di cui è ignoto l'autore che si può ammirare nella Loggia dei Lanzi in piazza della Signoria a Firenze. La drammaticità della tragedia mitologica narrata da Omero, con Menelao che soccorre, straziato dal dolore ma anche con sincero affetto, l'amico, dona un ulteriore senso poetico al miracolo che Gesù fece per salvare colui che nei vangeli viene citato proprio un suo amico.

Lasciata la Sicilia, nel tentativo di tornare a Roma, Caravaggio fu di nuovo a Napoli nell'ottobre 1609, «dov'egli pensava trattenersi fin tanto che avesse ricevuto la nuova della grazia della sua remissione per poter tornare a Roma», afferma il Bellori. In un'osteria, però, venne affrontato da alcuni uomini, forse cavalieri di Malta, essendo, scrive Giovanni Baglione, «perseguitato dal suo nemico». Prosegue il biografo che a causa di quell'affronto il pittore fu sfregiato e addirittura «nel viso così fattamente ferito, che per li colpi quasi più non si riconosceva».

Il suo volto lo vediamo bene nel David con la testa di Golia, custodito alla Galleria Borghese, nel quale torna il tema della decapitazione in un ultimo grido di dolore da parte di un uomo ormai stanco e invecchiato che si raffigura nel temibile gigante Golia arresosi al giovane David.
Significativo è che questa fu l'ultima opera dipinta dal Merisi, il canto d'addio di un pittore segnato dal terrore della persecuzione ormai da molti anni, ma sinceramente pentito. Se a prima vista proviamo orrore e inquietudine nell'osservare l'autoritratto, allo stesso tempo questa scena di decapitazione, una delle tante nella carriera del Caravaggio, è portatrice di un messaggio più profondo, di speranza.
Malinconico, il David, tutt'altro che fiero del gesto appena compiuto, richiama la statuaria classica e il modello michelangiolesco nel busto virile, ma nello stato d'animo è sicuramente più vicino ad una scultura più piccola, capolavoro visibile al Museo del Bargello di Firenze, vale a dire il David di Donatello. Come nell'opera bronzea di più di un secolo prima, un'ombra sottilmente psicologica attraversa il suo sguardo, impedendogli di esibire orgoglioso, come un trofeo, la testa del nemico, elemento tipico della tradizione inerente a tale soggetto. Davide appare riflettere su quanto accaduto e sulla vanità del tutto, anche dei giorni gloriosi, provando quella sensazione, profondamente umana, che scaturisce in noi a seguito di una giornata o di un momento, un successo, tanto importante.
Il giovane braccio dell'eroe è proteso verso di noi, come a vincere i limiti della cornice, quasi a riconsegnare alla realtà il Merisi, la cui vita è sempre stata divisa fra inquietudine esistenziale ed estrema bellezza artistica. Il David, infine, è anche figura di Cristo, che guarda con Amore la sua creatura, testimonianza del definitivo pentimento di Caravaggio.
A bordo di una feluca, la vita di questo straordinario pittore si concluse nell'estremo tentativo di rientrare a Roma e di lui si persero le tracce: «morì malamente, come appunto male havea vivuto», dirà il Baglione.
Un viaggiatore d'eccezione come Stendhal, in un secolo in cui la grandezza del pittore doveva ancora essere riscoperta, nelle pagine di Passeggiate romane lo citò pochissimo, definendolo «un pittore scellerato» mentre osservava le due tele di Santa Maria del Popolo raffiguranti la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo.

Noi, però, pur leggendo le critiche per la sua vita sregolata, dopo aver osservato attentamente la sua ultima prova pittorica, lo immaginiamo proprio come Saulo, caduto a terra spaventato da cavallo ma colto dalla luce divina. «Così il Caravaggio si ridusse a chiuder la vita e l'ossa in una spiaggia deserta, ed allora che in Roma attendevasi il suo ritorno, giunse la novella inaspettata della sua morte, che dispiacque universalmente», annota il Bellori.
Dalla Vocazione di San Matteo sino all'autoritratto come Golia, la luce ha sempre accompagnato Caravaggio e forse, su quella spiaggia di Porto Ercole dove sarebbe morto in estrema solitudine nell'anno 1610 a nemmeno quarant'anni, anche lui ne divenne parte, in un istante che, grazie al proprio pentimento, lo salvò e ne decretò il definitivo successo, non quello terreno ma quello che dura ancora oggi, sino all'eternità.

Tu mi hai fatto con le tue mani,
mi hai plasmato e ora mi distruggi.
Ricordati: mi hai modellato come argilla
e ora mi fai tornare nella polvere. [...]
Mi hai coperto di carne e di pelle,
mi hai intrecciato d'ossa e di nervi.
Tu mi hai concesso la vita,
hai vegliato con affetto su ogni mio respiro...

Dal Libro di Giobbe