Caravaggio
Dalla gloria al delitto
L'imporsi di Caravaggio sulla prestigiosa scena artistica romana fu dovuto alla sua capacità di proporsi rapidamente come erede del classicismo romano di Michelangelo Buonarroti e di Raffaello Sanzio, ma anche di quella brillantezza del colore veneziano di un Tiziano o di un Giorgione, senza dimenticare una formazione lombarda dove a seguito del Concilio di Trento lo spirito della controriforma aveva aperto la strada ad una predicazione, che si servì molto delle opere pittoriche, volta a rivalutare la storicità della narrazione dei vangeli.
Eppure pochi erano i pittori e, ancor meno, i critici che riconoscevano questo talento unico del Merisi, come testimonia la sua biografia redatta da Giovan Pietro Bellori nelle Vite, opera di primaria importanza e di straordinaria bellezza per il Barocco e l'intera storia dell'arte, che sebbene riconosca al Caravaggio il merito di aver ricondotto gli artisti
all'osservazione del naturale, riserva al suo percorso artistico uno spazio decisamente minore a scapito di autori più classicisti come Annibale Carracci, Guido Reni o Domenichino.
Così, la breve parabola del pittore lombardo, nonostante le grandi committenze pubbliche, si fece notare maggiormente per le opere private di colti e raffinati aristocratici disposti a tutto per poter avere un dipinto del ribelle pittore nei propri nobili palazzi o nelle proprie collezioni principesche, intuendo che non vi era meno potenza espressiva in una piccola tavola rispetto alle imponenti pale d'altare. La critica, al contrario, fingeva di ignorare le assolute innovazioni stilistiche che emergevano nei suoi quadri, servendosi del carattere inquieto e del temperamento violento - certamente propri dell'artista - per nascondere e censurare quelle scene troppo realistiche, considerate inadeguate, soprattutto per la committenza religiosa, da chi non poteva tollerare la ricerca di Caravaggio di rendere sempre più sottile, sino a farla divenire quasi impercettibile, l'apparente incolmabile distanza che separa l'opera d'arte dalla vita. Caravaggio è stato il primo pittore a superare le regole di spazio e di tempo, rendendoci partecipi della scena a cui ci troviamo dinanzi, coinvolgendoci in prima persona in quanto testimoni oculari, e trasferendo in un eterno presente il fatto raffigurato, che ha la capacità di parlare di noi, secoli fa come ora, accarezzando le corde più sensibili del nostro animo proprio come i versi sublimi di un suo contemporaneo, William Shakespeare.
Un'opera che si pone come la migliore sintesi di queste considerazioni sul Caravaggio, individuata simbolicamente come un momento di svolta nella sua carriera, è la Giuditta e Oloferne della Galleria Nazionale d'Arte Antica di palazzo Barberini, nella quale si intrecciano tutti gli elementi centrali nella produzione del Merisi, dalla teatralità scenica al motivo religioso sino al presagio personale dell'imminente futuro, su cui gravava l'oscurità di un destino che si rivelerà fatale.
Nel ritrarre il brutale episodio biblico della decapitazione del generale assiro Oloferne da parte dell'altera Giuditta, una donna ebrea intenzionata a difendere ad ogni costo il suo popolo dalla dominazione straniera, Caravaggio sottolinea l'estrema freddezza della giovane e bellissima ragazza nel compiere il proprio gesto, con il quale uccide il nemico ma anche un uomo che si era innamorato di lei. Spietata, questa sorta di femme fatale è ritratta in abiti contemporanei, elemento che permette al Merisi, pur rimanendo fedele alla narrazione biblica, di attualizzare e rendere universalmente valido il racconto, scegliendo come modella colei che al tempo era considerata la più bella prostituta di Roma, vale a dire Fillide Melandroni.
Contrapposta alla giovinezza e all'eleganza del volto di Giuditta è la serva in primo piano che assiste inorridita alla scena, mentre il culmine della tensione scenica, ambientata in un oscuro contesto nel quale emerge solamente un panno rosso, è riposta nello sguardo di Oloferne, drammaticamente ridestatosi dal sonno e ferito brutalmente, ma non ancora morto, mentre cerca con le forze rimaste nelle braccia di sottrarsi alla propria estrema agonia.
Non vi è dubbio che la religiosità di Caravaggio era quella di un uomo che viveva in modo personale e profondo la fede, in sintonia col proprio animo, divenendo unico nel riuscire a comunicare l'emozione religiosa, coniugando la teatralità all'autentico insegnamento morale e salvifico, dando vita ad un nuovo linguaggio pittorico che ha la stessa valenza di quanto avevano rappresentato Dante o lo stesso Shakespeare in ambito letterario.
Nei lavori di questi ultimi anni romani, caratterizzati quasi esclusivamente da soggetti religiosi, il Merisi, con l'intensa spiritualità e sincera devozione di cui diede prova, rilesse fedelmente l'antico come fonte primaria d'insegnamento, sintetizzando definitivamente la propria esperienza artistica lombardo-veneta e romana.
Esempio bellissimo ne è l'Incredulità di San Tommaso, dove l'intera umanità smarrita dalla vera via che conduce alla salvezza è raffigurata nell'espressione dell'apostolo diffidente, il quale appare come un cieco i cui occhi sono offuscati dal suo stesso scetticismo, dovendo necessariamente toccare il costato di Cristo, di cui sorprende lo straordinario realismo, per avere la certezza del prodigio avvenuto, la Resurrezione di Gesù vittorioso sulla morte.
Si tratta di una delle scene più significative e umane dei vangeli, che riguarda la fede di ognuno di noi e che Caravaggio seppe tradurre magistralmente col proprio spiccato senso artistico teatrale. Scrive l'evangelista Giovanni:
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».
Il momento drammatico della Cattura di Cristo, episodio dei vangeli nel quale emerge più che mai la natura umana di Gesù, solo al cospetto del tradimento e della morte, abbandonato dal Padre e da coloro che avevano scelto di seguirlo, è sospeso dal Merisi nell'abbraccio e nel bacio con cui Giuda tradisce il suo Maestro, il cui volto è intriso di dolore e rassegnazione a ciò che lo attende. Dietro di Lui Giovanni è spaventato e pronto a fuggire, mentre all'estrema destra, un uomo cerca di illuminare il bellissimo notturno con una lanterna. Si tratterebbe di un altro autoritratto del Caravaggio, testimonianza della sua ricerca di fede e redenzione.
Inerente a quelle più piccole committenze, non meno importanti però sul piano innovativo e stilistico, appartiene il meraviglioso Amor Vincit Omnia, vale a dire l'Amore vittorioso su tutto, realizzato per l'amico collezionista Vincenzo Giustiniani, per il quale aveva già realizzato il Suonatore di liuto.
L'allegro fanciullo pieno di vita, sorridente al pensiero di quanto si divertirà con i dardi che tiene nella mano, è allegoria della superiorità del sentimento amoroso. Ai suoi piedi vediamo vari oggetti fra cui strumenti musicali, attrezzi scientifici e parti di armatura, a testimonianza che non vi è arte, conoscenza scientifica o vittoria bellica che possa avere la medesima forza di un moto sincero del cuore. L'Amore qui dipinto dal Caravaggio, che dimostra di aver a lungo studiato l'anatomia degli ignudi michelangioleschi, vince anche le regole spaziali che dividono quadro e realtà, forse ancor più della magnifica coppia di tele che adornano la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. Il candido corpo del dio, attraverso il forte contrasto fra luce e ombra, appare infatti uscire dai confini della scena, conferendo un senso scultoreo tangibile e un'illusoria, ma più che mai realistica, profondità spaziale.
Nuovamente per il collezionismo privato, ma sempre parte di quel mecenatismo prestigioso dell'aristocrazia romana, il Bellori ci segnala il Sacrificio di Isacco oggi agli Uffizi:
«Al cardinale Maffeo Barberini, che fu poi Urbano VIII sommo pontefice, oltre il ritratto, fece il Sacrificio di Abramo, il quale tiene il ferro presso la gola del figliuolo che grida e cade». Proprio il grido di Isacco, nel cui viso riconosciamo l'adolescente dell'opera precedente, è il dettaglio più drammatico del quadro, un gesto carico di pathos e di eloquente realtà che denota quel costante ricorso ad un naturalismo che in questo caso si manifesta anche nel bellissimo paesaggio che si perde all'orizzonte, elemento raro nella pittura del Caravaggio, il quale solamente nel Riposo durante la fuga in Egitto aveva inserito i personaggi in una scena bucolica di simile ambientazione. Contrapposto al volto severo di Abramo, pronto ad obbedire alla volontà di Dio, è quello dolcissimo dell'angelo che con il gesto della mano irrompe sulla scena indicando il vero destinatario del sacrificio, ossia l'ariete che compare vicino ad Isacco.
Per il cardinale Scipione Borghese, fra il 1605 e il 1606, Caravaggio dipinse un ascetico San Girolamo scrivente, oggi alla Galleria Borghese, «che scrivendo attentamente distende la mano e la penna al calamaio», annota il Bellori. La figura esile, avvolta in un manto rosso spiegazzato, ricorda nel volto quella di Abramo, ma anche del San Matteo protagonista della pala centrale fra le tre a lui dedicate in San Luigi dei Francesi. Perfetto studio di anatomia, psicologia ed effetto della luce, il quadro colpisce lo sguardo dello spettatore per il dettaglio del teschio posto sopra i libri aperti sul tavolo, che si pone come parallelo funereo con il cranio calvo del santo. L'elemento che risulta maggiormente rivoluzionario nella composizione è tuttavia l'aver scelto di presentare Girolamo non come penitente, secondo l'iconografia tradizionale, bensì come un erudito intento a scrivere guidato dalla lettura della Bibbia, da lui tradotta dal greco al latino.
Continua nella biografia del Merisi il Bellori:
«Non però il Caravaggio con le occupazioni della pittura rimetteva punto le sue inquiete inclinazioni; e dopo ch'egli aveva dipinto alcune ore del giorno, compariva per la città con la spada al fianco e faceva professione d'armi, mostrando di attendere ad ogn'altra cosa fuori che alla pittura. Venuto però a rissa nel giuoco di palla a corda con un giovine suo amico, battutisi con le racchette e prese l'armi, uccise il giovine, restando anch'egli ferito».
Siamo nell'anno 1606, un anno fatale nell'esistenza del Caravaggio, di cui qui il Bellori pone in risalto la propria indole violenta, che si macchiò dell'omicidio di Ranuccio Tomassoni da Terni, un uomo arrogante e prepotente con cui il Merisi si era battuto nel gioco della pallacorda presso il rione di Campo Marzio. Fra i due contendenti, propensi alla violenza, la sfida sportiva che aveva portato al delitto celava in realtà una reciproca inimicizia per motivi ben più importanti, come probabilmente una questione legata ad una donna essendo il Tomassoni uno sfruttatore della prostituzione, mentre Caravaggio aveva amato e preso a modello per i suoi quadri delle prostitute, come quella Fillide Melandroni che compare nel volto di Giuditta.
Nei confronti del Merisi fu emesso un bando capitale che lo costrinse a fuggire da Roma, la città dove ormai era diventato il pittore di successo e ribelle conosciuto da tutti.
Proprio nel periodo dell'omicidio si inserisce un capolavoro celeberrimo come la Morte della Vergine del Museo del Louvre di Parigi, di cui riferisce Giovanni Baglione, biografo e pittore rivale del Merisi:
«Per la Madonna della Scala in Trastevere dipinse il transito di N. Donna, ma perché havea fatto con poco decoro la Madonna gonfia, e con le gambe scoperte, fu levata via; e la comperò il Duca di Mantova, e la mise in Mantova nella sua nobilissima Galleria». Sappiamo poi che l'opera passò in Inghilterra e giunse infine in Francia, ceduta al sovrano Luigi XIV.
Come di consueto, un fascio trasversale di luce entra da sinistra illuminando il personaggio di primaria importanza nel dipinto, la Vergine Maria, riflettendosi poi sui volti degli apostoli, raffigurati in tutta la loro umiltà e in un dolore più che mai umano, smarriti alla vista della morte della Madre di Gesù, chi in lacrime, chi invece assorto nei propri pensieri.
Un'altissima tensione drammatica governa la scena, ambientata in un interno dimesso e spoglio in cui spicca però il drappo rosso che, alzandosi come un sipario sul palcoscenico, conferisce alla composizione una notevole teatralità.
La commozione dei presenti diviene propria anche dell'osservatore, il quale si immedesima nella giovane ragazza seduta in primo piano con la testa piegata sulle mani, quasi a non voler guardare. Proprio come nella Deposizione, la donna è la Maddalena. L'opera è però celebre soprattutto per lo scandalo che aveva sollevato a causa della scelta di Caravaggio di ritrarre una prostituta annegata nel Tevere come la Madre di Cristo. La morte per annegamento è evidente nel dettaglio del ventre gonfio di Maria, che costò al Merisi l'accusa di essere miscredente e blasfemo. Giudicata indecente e priva di decoro, la tela fu rifiutata dai committenti, offesi e scandalizzati.
Studi più recenti, nonché interpretazioni attenti alla sensibilità e alla spiritualità del Caravaggio, hanno capito che quel ventre gonfio allude in realtà a Maria "piena di Grazia", omaggio ad una maternità carica di mistero, ad una donna che portò in grembo il Figlio di Dio, amato e accompagnato fra mille preoccupazioni sino alla morte sulla croce, in un'atroce sofferenza rievocata dal braccio abbandonato che ci riporta alla mente la scena della Deposizione.
Segnato dall'omicidio e dalla condanna, Caravaggio, nella raffigurazione dei sentimenti e nel contrasto fra la luce e le ombre diviene ancor più intimo e riflessivo, dando vita nel 1606 anche alla memorabile Cena in Emmaus della Pinacoteca di Brera, probabilmente l'ultimo quadro della sua folgorante stagione romana. Rispetto alla versione dello stesso soggetto, ma più giovanile, conservata alla National Gallery di Londra, il capolavoro di Brera stupisce per la grande efficacia comunicativa, in cui ancora una volta l'esperienza divina si manifesta nel quotidiano, in un ambiente umile e fra la povera gente, tuttavia con una malinconia disarmante in cui è rapito l'attimo in cui Cristo, benedicendo il pane, viene riconosciuto dai due discepoli. Il confine fra il manifestarsi di Gesù e l'imminente dissolversi di questa salvifica visione appare sempre più sottile se si guarda il viso del Messia, avvolto per metà nell'ombra. Nella gestualità contenuta, diversa dalle composizioni teatrali precedenti, l'attenzione è posta all'esatta resa delle reazioni dei protagonisti, spaventati e increduli alla vista del Signore, elemento che ricorda il Cenacolo vinciano che il Merisi ebbe modo di studiare durante la propria formazione lombarda.
Se nella versione precedente abbondava sulla tavola una natura morta dallo stupendo naturalismo, qui il pittore sembra aver voluto eliminare tutto quanto riteneva superfluo e che potesse distogliere l'attenzione dal volto di Cristo, centro focale del dipinto, mai così espressivo nella storia dell'arte. Concentrandosi attentamente nel contemplare la scena, percepiamo davvero l'incombere delle tenebre - che per Caravaggio avevano un chiaro riferimento biografico - e il timore dell'umano nella sua fragile condizione esistenziale, ben espressa dai volti rugosi dell'oste e dell'anziana donna, sentimenti che si possono comprendere ancora meglio nei passi del vangelo di Luca inerenti all'episodio:
Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro.
Perseguitato dall'oscurità e dalla condanna di decapitazione, tema a cui dedicherà altre numerose tele ritraendosi spesso in prima persona, Caravaggio si fece ancora più inquieto, accentuando le ombre minacciose e un senso di vuoto incolmabile nei dipinti a cui ebbe modo di lavorare negli ultimi disperati anni della sua tormentata esistenza, conclusasi a seguito di alcuni brevi soggiorni nel meridione, nella folle fuga con la quale sperava di fare ritorno a Roma.
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